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La decisione di tenere bloccate in mezzo al mare per più di 10 giorni le due navi di Sea Watch e Sea-Eye non ha nessuno scopo, all’infuori di impedire alle Ong di svolgere operazioni di soccorso in mare.

Al momento in cui scriviamo, le due navi delle Ong tedesche Sea Watch e Sea-Eye sono al proprio dodicesimo giorno in mezzo al mar Mediterraneo, in condizioni meteorologiche fortemente peggiorate negli ultimi giorni. A bordo delle due navi ci sono in totale 49 migranti, soccorsi al largo delle coste libiche a dicembre.

Il peggioramento del meteo ha spinto Malta a concedere alle navi l’ingresso nelle acque territoriali dell’isola, ma non l’attracco, in attesa che il governo raggiunga con gli altri stati europei un accordo sulla ripartizione di un numero così esorbitante di profughi. A bordo della Sea Watch 3 c’è almeno una persona a rischio disidratazione a causa delle crisi di vomito provocate dal forte mal di mare.

Il copione è consolidato. Nonostante esistano precise convenzioni internazionali che obbligano, in caso di soccorso in mare, di assegnare ai soccorritori il “porto sicuro” più vicino in cui far sbarcare i naufraghi — e ci sono pochi dubbi sul fatto che in questo caso si tratti di Malta e dell’Italia — da quando governo italiano ha deciso di applicare la politica salviniana dei “porti chiusi” si è instaurata una sorta di prassi non ufficiale, e al di fuori da qualsiasi legge: quando una nave soccorre un migrante nel Mediterraneo, la si tiene bloccata al largo finché tutti gli stati europei non si mettono d’accordo su chi deve dare accoglienza a quel migrante. (Lasciamo stare che poi l’accoglienza significhi detenzione amministrativa, nella maggior parte dei casi).

Il sistema è fuori da ogni logica: è come se, ogni volta che qualcuno bussa alla porta, si convocasse l’intera riunione di condominio per decidere chi debba andare ad aprirgli, a meno che qualcuno — come ha fatto la Spagna nel caso di Proactiva Open Arms dieci giorni fa — decida di sbloccare la situazione per propria iniziativa.

Non vale soltanto per le navi delle Ong, che si trovano nel Mediterraneo apposta per svolgere operazioni di ricerca e soccorso, ma anche per qualsiasi altra nave, civile o militare, che rispondesse all’obbligo di soccorrere un’imbarcazione in difficoltà: lo scorso giugno è toccato per esempio a un cargo danese con 113 migranti soccorsi a bordo, tenuto per 4 giorni al largo della Sicilia in attesa dell’autorizzazione allo sbarco, e poi alla nave della Guardia costiera italiana Diciotti.

Questa politica è servita a scoraggiare sistematicamente il soccorso in mare — sono numerosi i mercantili che ora ignorano gli Sos, per paura di ritrovarsi senza un porto in cui attraccare — trasformando il Mediterraneo in una “terra di nessuno” in cui sia possibile, per i governi europei, girare la testa dall’altra parte se le imbarcazioni di migranti affondano: uno sterminio passivo, scelto come strumento di controllo dei confini meridionali.

In assenza di una rete di soccorso organizzata — e, a monte, in assenza di canali legali di immigrazione in Europa che rendano inutili i “viaggi della speranza” — il rischio di naufragi aumenta, anche perché i trafficanti sono tornati a sfruttare rotte più lunghe, e quindi più pericolose, per arrivare direttamente sulle coste italiane. Il Mediterraneo centrale non è mai stato così pericoloso e letale per i migranti.

In questo quadro, le Ong sono tornate a rompere le uova nel paniere ai governi europei, italiano in primis.

La campagna di criminalizzazione politica e giudiziaria iniziata nel 2017 era riuscita a svuotare il Mediterraneo quasi del tutto, rendendo economicamente e politicamente svantaggioso svolgere operazioni di SAR — con il rischio di trovarsi bloccati in mare, sequestrati al largo di un porto, privati della bandiera, accusati di diffondere attraverso i vestiti malattie impossibili da diffondere attraverso i vestiti, eccetera.

Progressivamente, però, negli ultimi mesi alcune Ong sono tornate a operare con le proprie navi: Proactiva Open Arms, Sea Watch, Sea-Eye e l’ultima arrivata, l’italiana Mare Jonio. Ed è così che si arriva all’impasse in cui si trovano da 12 giorni 49 persone, tanto più paradossale quanto più è irrisorio, ridicolo il loro numero. Non è ovviamente il numero il problema, né la mancanza di un accordo sulla ripartizione — anche perché numerose città tedesche, oltre che il governo olandese e il comune di Palermo, si sono già offerte di dare ospitalità ai migranti.

Se le due navi sono state tenute bloccate in mare per tutto questo tempo, nonostante sia inevitabile che prima o poi i migranti sbarchino, dato che non li si può rimandare in Libia, è per scoraggiare e rendere insostenibili ulteriori operazioni delle Ong (non c’è bisogno di dire che rimanere in mare con decine di persone a bordo per due settimane costa). E questo comportamento ha un nome: terrorismo.

La morale amara che si ricava da questo caso, che presumiamo purtroppo non sarà l’ultimo, è che l’Unione europea ha ceduto alla propaganda dei suoi governi xenofobi — con il beneplacito di quelli che non dovrebbero esserlo, Francia e Spagna in primis — rinunciando ad avere una politica comune in fatto di migrazioni, e accettando uno “stato d’eccezione” permanente. Questo si basa sull’istituzionalizzazione dei capisaldi retorici dell’estrema destra contro le Ong, entrati a far parte ormai del sapere comune: “l’invasione,” Soros, il “pull factor,” e così via. È così che siamo costretti ad assistere alla scena triste e grottesca di un ricco continente che volta le spalle a poche decine di persone, nel momento in cui partenze e sbarchi sono enormemente calati, tanto da non rendere più assolutamente giustificata la definizione di “emergenza,” che si continua a utilizzare. L’unica emergenza è l’ubriacatura di nazionalismo che tiene in ostaggio non i 49 naufraghi di Sea Watch e Sea-Eye, ma tutta l’Unione europea.

in copertina: foto di Sea Watch, via Twitter

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