in copertina, grab via YouTube
Martedì inizia il Festival di Sanremo e per qualche giorno l’attenzione del Paese sarà focalizzata sul suo evento musicale più importante, mediatico e chiacchierato dell’anno. In gara ci saranno 24 canzoni, ma leggendo i testi e confrontandoli con quelli dei brani in gara l’anno scorso una cosa salta subito all’occhio: le canzoni di quest’anno non parlano solo di amore, cuore e anima.
L’anno scorso avevamo evidenziato come i testi sanremesi avessero uno slancio a dir poco ecumenico. L’aveva di fatto sottolineato anche il cardinale Gianfranco Ravasi twittando alcuni passaggi contenuti nelle canzoni di Daniele Silvestri, Irama e Simone Cristicchi. Ogni anno, a Sanremo, i brani in gara parlano di amori bidimensionali e struggenti. Le relazioni sono idilliache o disastrose, ma sempre romantiche e in generale poco aderenti alla realtà. Il più delle volte contengono inoltre un campionario di luoghi comuni e riferimenti religiosi e biblici piuttosto vario. Ad esempio si parla molte volte di Dio e anime e si nomina spesso il diluvio universale.
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“Amore,” “cuore” e “vita” sono onnipresenti anche quest’anno, ma a differenza della scorsa edizione sono meno centrali e vengono pronunciati di meno. Complessivamente vi capiterà di sentire la parola vita solo 20 volte (l’anno scorso veniva pronunciata 23 volte), seguita dalla parola amore, 20 volte (59 nel 2019), e dalla parola cuore, 9 volte (21 nel 2019). Le parole “sole”, “anima”, “stelle” e “dio”, anche queste di solito molto utilizzate nella musica leggera italiana per tracciare immaginari triti e ritriti e definire storie rassicuranti e facilmente comprensibili dal pubblico, quest’anno saranno largamente sottorappresentate. Detto ciò, guardando la lista degli artisti e leggendo titoli e testi delle canzoni, non si ha la sensazione che la vittoria di Mahmood nel 2019 abbia portato un gran rinnovamento. Le canzoni che parlano sommariamente di amore — gridandolo al mondo, per intendersi — ci sono ancora. Sicuramente lo fa quella di Alberto Urso intitolata “Il sole ad est,” ma anche “Baciami adesso” di Enrico Nigiotti o “Ho amato tutto” di Tosca. Alcune, come quella di Enrico Nigiotti contengono anche dei giri di parole che possono indurre un po’ di spaesamento come: “sei in ogni volta che non penso e penso a te.” Altre buttano in mezzo delle parole in inglese senza che sembri necessario. È il caso di Francesco Gabbani che canta “un diluvio universale, un giudizio sotto il tetto, up con un po’ di down” o di Marco Masini quando dice “il cuore è un killer preso alle spalle, il mondo è open sopra miliardi di stelle” sfoggiando tra l’altro un linguaggio da imbruttito di mezza età. E anche Rita Pavone in “Niente (resilienza 74)” canta “resto qui nel fitto di un bosco, e il tuo vento non mi piegherà, I love you, I love you, I love you, I love you, I love you, I love you.”
Le Vibrazioni invece sembrano citare un film di Aldo, Giovanni e Giacomo cantando: “chiedimi se dove sto, sto bene, sono felice.”
Alcuni brani, come quello di Irene Grandi o il pezzo di Michele Zarrillo dal titolo emblematico, “Nell’estasi o nel fango,” parlano invece di rivincita personale e affermazione di se stessi sfiorando l’autoanalisi. Però ci sono anche brani interessanti, apparentemente più ironici e brillanti, come “Sincero” di Morgan e Bugo o “Fai rumore” di Diodato. E a proposito di riferimenti biblici, il giudizio universale quest’anno viene citato da Francesco Gabbani, mentre nel pezzo di Rancore, “Eden,” si mischia tradizione cattolica, mitologia greca, attualità e fiabe (Biancaneve). Levante canta “siamo l’amen in una preghiera”, Tosca si rivolge all’amato dichiarando “tu sei l’unica messa a cui sono andata,” Raphael Gualazzi teme di essersi innamorato del demonio e si chiede: “ma chi l’avrebbe detto, sento solo la musica, forse sei il diavolo, ma sembri magica.” Piero Pelù in “Gigante” nomina Gesù, ma anche Buddha, per non scontentare: “Tu sei il mio Gesù la luce sul nulla, un piccolo Buddha.” In compenso il brano di Giordana Angi suona come un elogio banalotto di una madre anni Cinquanta, mentre quello dei Pinguini Tattici Nucleari, letto così, è già più simpatico e sembra un inno ai secondi, a quelli che nella vita vengono sempre considerati dei gregari. Altri come Riki, Elodie e Paolo Jannacci si tengono a distanza dai riferimenti religiosi.
“Rosso di rabbia” di Anastasio e “No grazie” di Junior Cally sono invece dei viaggioni nei rispettivi ego, con tanto di frecciatina alla politica per il secondo: “e pure il liberista di centro sinistra che perde partite e rifonda il partito” — difficile capire se stia parlando di Renzi (molto probabile) o Calenda (molto meno probabile). Il pezzo di Elettra Lamborghini letto così dice poco, ma da lei ci si aspetta un po’ quello che l’anno scorso ci si aspettava da Mahmood. Achille Lauro fa l’Achille Lauro.
La tendenza, anche nei brani di quest’anno, è quella di impastare i versi di religiosità, ma questa volta gli autori non sembrano aver calcato la mano e nel complesso le canzoni in gara in questa edizione del Festival di Sanremo sembrano essere più varie dal punto di vista del lessico e dei temi. Ma volendo proprio premiare un brano che rappresenta fedelmente la tradizione cattolica italiana, con tutto lo strascico di valori e immaginari da dopoguerra, la vittoria va sicuramente a Tosca. “Ho amato tutto,” il suo pezzo, da questo punto di vista è semplicemente perfetto, quanto di più melenso ci si possa aspettare da una canzone di tre minuti. Un piccolo estratto:
“Perché se manchi tu manchi da morire
Perché amarsi è respirare i tuoi respiri
Stracciarsi via la pelle e volersela scambiare
È l’attimo fatale in cui mi sono arresa
Perché tu vieni con questo amore tra le mani
E come sempre nei tuoi occhi
La mia casa
Se tu mi chiedi in questa vita cosa ho fatto
Io ti rispondo ho amato
Ho amato tutto”
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