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Il nullaosta su Foa da parte di Forza Italia apre scenari inquietanti sul futuro del pluralismo dell’informazione nel nostro paese, verso il modello ungherese e polacco.

Le trattative intavolate nei giorni scorsi tra Salvini e Berlusconi hanno dato i loro risultati: ieri la Commissione di Vigilanza Rai ha dato il via libera alla risoluzione che autorizza il Cda della Rai a indicare per la seconda volta il nome di Marcello Foa come presidente. I consiglieri forzisti — Gasparri e Mulè — si sono astenuti, facilitando l’approvazione della risoluzione. Poi loro stessi hanno ammesso che “c’è stato un accordo politico” — importa poco che sia stato raggiunto ad Arcore e non in una sede istituzionale.

Il caso è senza precedenti e ha scatenato le proteste delle opposizioni, perché la Commissione si troverà a votare per la seconda volta un candidato già bocciato. Sia il Pd, sia il sindacato dell’azienda Usigrai sostengono che si tratti di una violazione della volontà degli elettori, e si preparano a fare ricorso. Per mascherare almeno in parte l’irritualità di questo secondo passaggio, su proposta di Mulè, la Commissione dovrebbe procedere a un’audizione di Foa prima del voto.

La situazione della presidenza Rai si trovava di fatto bloccata dallo scorso agosto, quando, proprio per l’astensione dei parlamentari di Forza Italia, in Commissione non era stata raggiunta la maggioranza dei due terzi necessaria per convalidare la nomina. In seguito il Cda avrebbe dovuto proporre un altro candidato, ma non è successo: Foa è rimasto nel Consiglio di amministrazione in qualità di “consigliere anziano,” comportandosi come una sorta di presidente de facto. Il 4 agosto scorso il consigliere scelto dai dipendenti, Riccardo Laganà, scriveva al Quirinale per protestare contro questa grave situazione di stallo, segnalando come l’auto-assunzione della carica di presidente da parte di Foa fosse “integralmente priva di efficacia.”

Thinking face, grab da YouTube
Thinking face, grab da YouTube

Ma che cosa ha promesso Salvini a Berlusconi per convincerlo — con il silenzio complice del Movimento 5 Stelle — a cambiare idea? Probabilmente il mantenimento dell’alleanza con Forza Italia in vista delle prossime regionali, la promessa di bloccare i transfughi azzurri nella Lega e, come al solito, rassicurazioni sulle aziende. D’altra parte già ad agosto era chiaro che l’opposizione di Forza Italia alla nomina di Foa riguardava più il metodo che non il merito — l’accordo era stato raggiunto senza consultare i forzisti — e che avrebbero provato a utilizzarlo come arma di ricatto per prolungare a mo’ di accanimento terapeutico la vita del centrodestra. A riprova che Berlusconi riesce ancora a fare danni e quindi non dovremmo mai cedere alla tentazione di rimpiangerlo.

Settimana prossima la Commissione di Vigilanza tornerà a riunirsi e, salvo nuovi colpi di scena, arriverà il definitivo via libera per Foa alla presidenza della principale azienda culturale del paese. Quanto è grave il futuro che ci attende?

Nelle scorse settimane, quando l’impasse su Foa teneva banco sulle prime pagine dei giornali, qualcuno — come Enrico Mentana — minimizzava la rilevanza del caso, ricordando come la lottizzazzione della Rai da parte sia sempre stata una prassi politica abituale: questa volta hanno vinto loro, impongono il nome che vogliono loro. Ma se è vero che nel passato siamo sopravvissuti alla Rai dell’epoca berlusconiana, all’editto bulgaro e al TG1 diretto da Augusto Minzolini, ci sono elementi per ritenere che questa volta si tratti di una questione un po’ diversa. Stabilire dov’è il confine tra un giornalista semplicemente “di parte” e un giornalista così “di parte” da rischiare di essere inadeguato — se non pericoloso — alla guida di un servizio pubblico non è facile, ma la carriera passata di Foa offre una serie di indizi poco rassicuranti, a partire dai suoi frequenti rilanci delle bufale complottiste di InfoWars, il sito di Alex Jones che nelle scorse settimane è stato bandito da tutte le principali piattaforme online.

In secondo luogo, preoccupa il modo con cui il nome di Foa è stato imposto, peraltro dall’azionista minore — in teoria — della maggioranza di governo. L’assalto leghista alla presidenza della Rai conferma un atteggiamento generale dell’intero governo, poco incline a tollerare le voci di dissenso all’interno dei rami dello Stato: lo si è visto con le polemiche contro il presidente dell’Inps, contro la magistratura, contro i tecnici del ministero del Tesoro, e così via. E preoccupa ancora di più se si osserva l’esempio di due paesi europei a cui il blocco sovranista italiano guarda come modello (lasciamo stare la Russia): l’Ungheria e la Polonia.

Nella patria dell’idolo salviniano Viktor Orban, recentemente sanzionato anche dal Parlamento europeo per la sua concezione “creativa” dello stato di diritto, l’attacco alla libertà e al pluralismo della stampa è stato una delle priorità del governo, che con una legge varata nel 2010 ha stretto il proprio controllo attorno al sistema mediatico del paese, rafforzando allo stesso tempo il servizio pubblico di informazione, trasformato in una macchina di propaganda governativa. Dopo l’ultima vittoria elettorale di Orban, la scorsa primavera, hanno interrotto le pubblicazioni il principale quotidiano di opposizione (stampato dal 1938) e il primo sito di informazione online in lingua inglese, mentre una rivista filo-governativa pubblicava una “lista nera” di centinaia di critici del governo, accusati di essere “mercenari” di George Soros.

L’allora prima ministra polacca Beata Szydło con Viktor Orban / Wikimedia Commons
L’allora prima ministra polacca Beata Szydło con Viktor Orban / Wikimedia Commons

Le cose non vanno tanto meglio in Polonia, dove il partito Legge e Giustizia (PiS), una volta arrivato al potere, ha subito sostituito il management dell’emittente radiotelevisiva di stato, trasformandola in un megafono per il proprio operato — con uno sbilanciamento che, osserva l’autrice di un dettagliato report pubblicato da Freedom House, “va ben oltre gli sforzi da parte dei precedenti governi per assicurarsi una copertura favorevole nei media pubblici.”

Nell’annuale indice della libertà di stampa curato da Reporter senza frontiere la Polonia è scivolata quest’anno al 58esimo posto. L’Italia già di suo non si è trovata mai molto bene in questa classifica, ma rispetto al 2017 è salita di 6 posizioni, piazzandosi al 46esimo posto. Il futuro fosco che si profila per la Rai, in un panorama mediatico già dominato dal conflitto di interessi mai sanato di Berlusconi, non fa ben sperare. Qualche segnale di cosa ci aspetta lo abbiamo già visto: lo stop alla fiction di Beppe Fiorello sul modello di integrazione di Riace, e ancora prima le assurde polemiche per una puntata di Un posto al sole dedicata ai rifugiati. La trasformazione della televisione pubblica in una specie di succursale di Russia Today potrebbe già essere cominciata.


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