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La vita religiosa dei bektashi ruota attorno alle teqqe, i luoghi di culto dove i fedeli si ritrovano a pregare, sprovviste di minareti e con una liturgia unica per uomini e donne.

Con i suoi palazzoni squadrati e austeri, le vestigia di un passato comunista particolarmente inglorioso, Tirana accoglie il visitatore incanalandolo nel caotico traffico cittadino che scorre per le vie principali, tra una restauratissima piazza Skanderbeg, la casa-museo dell’ex dittatore Enver Hoxha e i locali chic del quartiere del Blloku, il distretto dove un tempo viveva la nomenklatura comunista.

Guardandone la skyline dall’alto, al tramonto, dopo un temporale estivo, con gli uccelli che tornano al nido costruito nell’incavo di una ciminiera e le montagne sullo sfondo a incorniciare il paesaggio, Tirana infonde comunque un senso di pace. Un sentimento panico che si amplifica girandosi di 180° per venire accecati dalla sontuosità della teqqe del Centro Mondiale dei Bektashi, un ordine religioso islamico dalle tinte mistiche. La teqqe è un edificio imponente, un’astronave dalle vetrate di vetro e le colonne color cobalto, la cupola scintillante la fa assomigliare vagamente ad una gigantesca biscottiera. Come siamo finiti qui su questa collina?

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Un passo indietro. Una versione apolitica e didascalica di questa storia è già uscita, quindi adesso ci possiamo prendere il lusso di buttarla in politica. Oggi che tutte le vacche sono nere, che nessuna posizione è più di destra o di sinistra (“e quindi è di destra”, cit. Emmanuel Carrère), parlare di Islam, a qualunque livello di competenza e in qualunque occasione, non può non avere un significato eminentemente politico. Chiunque creda in una “società aperta”, intesa à la Popper come una comunità intenzionata e capace di rispettare le libertà civili e politiche di ogni suo membro, si trova confrontato con la visione dei suoi nemici, che viaggia apparentemente con il vento in poppa. Uno dei pilastri della narrazione tossica ordita dagli estremisti islamisti e dai loro omologhi europei (le nemmeno troppo estreme destre continentali) è che i primi rappresentino il vero e unico Islam, una narrazione funzionale ad entrambi per ampliare le rispettive basi di sostegno. Raccontare la complessità dell’Islam, uno sforzo controcorrente intrapreso in Italia da figure come Lorenzo Declich e Paola Caridi, e descrivere la siderale distanza dello Stato Islamico da ciò che la maggioranza considera “islamico”, come Gabriele Del Grande nel suo Dawla, è un’operazione impregnata di risvolti etici che trascende la mera curiosità del reporter. Con le dovute proporzioni, ecco perché ci troviamo qui.

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Oggi nel Paese delle aquile si stima che almeno la metà dei musulmani — che in Albania rappresentano la comunità religiosa piú cospicua, davanti a quella cristiana ortodossa — segua il credo bektashi, sebbene nel censimento del 2011 solo il 2,09% della popolazione abbia selezionato quest’opzione. Al mondo, si stima la presenzadi circa sette milioni di credenti bektashi. Da profani, viene da dire che la modernità di questo ordine sufi sta nel mettere al centro l’individuo e la sua libertà, e di conseguenza la strenua difesa della tolleranza interreligiosa — non esattamente un pro forma nei Balcani. Consacrati alla meditazione in solitudine, gli adepti sono invitati a ponderare ogni scelta e ogni aspetto della propria vita, guidati naturalmente dai testi sacri  — che, oltre al Corano, sono Bibbia, Salmi e Torah — e ispirati dalle vite degli esponenti illustri (vivi o defunti). Questi sono, principalmente, i baba, i leader delle comunità locali e i dervisci, il grado inferiore.

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Incontrando le massime cariche balza subito all’occhio la loro affabilità. Hanno comportamenti molto mondani e informali: lo smartphone spunta frequentemente dal saio, si fanno ritrarre sul divano a guardare la televisione, bevono alcol e fumano in pubblico, non di rado chiedendo o offrendo le sigarette ai fedeli.

Considerando che si parla di presunti autori di miracoli e guarigioni insperate, sulle prime si resta spiazzati a non trovarsi al cospetto di figure enigmatiche e sfuggenti, ma a persone disponibili a mostrare la propria interazione con le cose terrene.

Da sette anni Baba Mondi, il Dedebaba, è la guida spirituale di tutto l’ordine: dopo aver incontrato Papa Giovanni Paolo II e, nel 2014, Papa Francesco, è stato insignito nel 2017 del premio di Global Peace Icon assegnato dalla ONG We care for Humanity. A suo agio davanti alla telecamera, ci guida attraverso la tormentata storia della sua comunità.

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La storia recente dei bektashi si riassume in cinque date: nel 1826 l’ordine dei giannizzeri, tradizionalmente formato da adepti a questo culto sufi, viene abolito nell’impero ottomano; nel 1925 Atatürk abolisce direttamente l’ordine, condannando i bektashi alla clandestinità; nel 1929 il clero si trasferisce ufficialmente in Albania, sotto l’ala protettrice di re Zog I; nel 1967 il dittatore comunista Enver Hoxha dichiara la repubblica socialista balcanica il “primo stato ateo” del mondo, la pratica religiosa è proibita, le gerarchie clericali decapitate; nel 1990 il comunismo crolla rovinosamente e anche in Albania ritorna la libertà di culto. Il fil rouge è la persecuzione, la costante oscillazione tra fasi di sdoganamento e fasi di repressione.

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Durante le fasi di persecuzione, i bektashi sono riusciti a sopravvivere principalmente grazie al sostegno della popolazione. Enver Hoxha – nato in una famiglia bektashi – fu il più pervicace e indefesso persecutore di questi mistici musulmani, nonostante questi avessero preso parte attiva nella resistenza antifascista. L’epopea di Baba Rexhep che, dopo essere scappato in Italia e in Egitto si rifugiò presso Detroit, fondando la prima comunità bektashi in America, è solo l’ultimo esempio nel tempo della resilienza di questo culto, capace di rigenerarsi e prosperare in ambienti molto differenti da quelli abituali.  

Uno dei motivi alla base dell’affetto popolare che investe i bektashi e gli altri ordini sufi nei Balcani è la loro scelta di non compromettersi – durante l’ultimo secolo – con nessuna forza politica o militare, in un’area storicamente insanguinata dalle aspirazioni egemoniche di alleanze politico-religiose abili ad utilizzare la fede come instrumentum regni per contrapporre membri di comunità abituate a vivere assieme.

Da questa coesistenza i bektashi hanno ricavato il loro caratteristico sincretismo.

Una parola adatta a descrivere la commistione di pratiche e la pluralità di fonti dogmatiche che questo culto esibisce, ma che forse non sarebbe pienamente apprezzata dai bektashi stessi, abituati a concepirsi più come una versione cangiante e proteiforme dell’Islam che come un cocktail di elementi presi in prestito da altre religioni.

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Terminato il nostro incontro, il Dedebaba ci chiede una foto insieme, ci dona un frutto a testa e scompare dietro la porta. Mentre il derviscio ci riaccompagna verso l’uscita, lo interroghiamo incuriositi: “Ma tu mangi carne di maiale?”. Risponde: “L’ho provata una volta, ma non mi piace granché. Non è una scelta che dipenda da uno specifico dogma religioso, noi Bektashi siamo sempre liberi di scegliere. È solo il gusto che non mi fa impazzire”.

La vita religiosa dei bektashi ruota attorno alle teqqe, i luoghi di culto dove i fedeli si ritrovano a pregare, sprovviste di minareti e con una liturgia unica per uomini e donne. Un’altra differenza cardinale rispetto alle moschee è la presenza delle tombe dei baba e delle candele per i defunti, un prestito dal cristianesimo che incrementa ulteriormente l’aura di spiritualità che avvolge le teqqe. Una delle teqqe più significative si trova a centosessanta chilometri a sud-est di Tirana, vicino alla città di Korçë. La teqqe di Melçan scruta dalla cima del suo colle uno splendido altopiano. Anche qui veniamo accolti da un derviscio, che si premura di lodare la riservatezza e l’umiltà del baba locale, doti straordinarie visto il numero di miracoli compiuti. Baba Sadik ci riceve in una sala arredata con tappeti e divani. Mentre sorseggiamo il caffè turco offertoci dai fedeli, ci parla del ruolo di mediazione che il culto gioca nella complessa società albanese, senza risparmiare una stoccata finale al terrorismo di matrice islamica, spiegando come l’idea stessa di fondamentalismo sia rigettata da pressoché la maggioranza delle autorità musulmane nel mondo. Il suo gesticolare accompagna la narrazione, spesso si ferma per aspirare fumo da una sigaretta. Dopo una chiacchierata di venti minuti, salutiamo i credenti e riguadagniamo la macchina.

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La cultura popolare ha immortalato il proverbiale liberalismo dei bektashi in una serie di barzellette, nate a scopo denigratorio, ma poi entrate a far parte di un patrimonio comune, quasi rivendicato orgogliosamente dai fedeli. In queste, il personaggio bektashi assume un piglio iconoclasta e provocatorio rispetto ad una verità ufficiale ed imposta. Un esempio particolarmente significativo narra di un bektashi invitato da un amico sunnita in moschea, dove viene subito individuato dall’hodja (leader spirituale sunnita), che prova a metterlo in imbarazzo descrivendo gli effetti negativi dell’alcol, ampiamente consumato dai bektashi. “Se a un asino, metteste davanti una brocca d’acqua e una di raki [liquore tipico albanese], cosa berrebbe?”, chiede l’hodja alla folla dei fedeli, ricevendo un prevedibile coro di “Acqua!”. A quel punto, il bektashi, per nulla intimorito dall’essere in minoranza, esclama: “Certo che sceglierebbe l’acqua, è un asino!”.