L’errore più grave che la sinistra possa commettere è lasciarsi dettare l’agenda dal ministro dell’Interno. Perché ci sono domande più pressanti che deve sciogliere, se vuole sopravvivere a questa fase politica.
Siamo di fronte a un pericolo. E nemmeno così remoto: che tutte le forze democratiche, di sinistra e progressiste trovino un unico punto di coagulo. Che in sé, come prospettiva generale, potrebbe essere anche incoraggiante: dopo anni di diaspora incontrollata e incontrollabile, che ha condannato qualsiasi proposta politica alternativa al neoliberismo in un misero angolo e alla quasi completa sparizione, finalmente si delinea la possibilità di ritrovarsi uniti. Il problema, qui, è che si sente l’odore stantio di un déjà vu.
Il centrosinistra degli anni Novanta e Duemila aveva come piattaforma unificante un solo elemento forte, l’antiberlusconismo, che generava coalizioni tanto ampie quanto deboli – governi che duravano al massimo mezza legislatura. Fu così per l’Ulivo (‘96) e l’Unione (‘06), che spaziavano da Rifondazione Comunista all’UDC di Mastella, in opposizione al Male Assoluto di quel periodo storico: il Cavaliere.
Paradossalmente, quasi per una strabica nemesi storica, a un decennio di distanza la nuova fragilità delle forze democratiche sembra derivare proprio dall’aver sacrificato l’antiberlusconismo, inteso non tanto come pura avversione a un nemico comune, quanto come dovere morale di dimostrare di essere “antropologicamente diversi” dalla coalizione di segno opposto.
Nell’attuale fase politica, la difficoltà principale (dell’inesistente) opposizione sembra posizionarsi prima di tutto sul piano delle idee. E in particolare, nell’incapacità di ritrovare un discorso politico veramente altro rispetto allo sloganismo banalizzante delle forze sovraniste e populiste. Per fare un esempio semplice: come posso criticare le politiche di respingimento e mancato soccorso umanitario del governo Conte se, per bocca di Salvini, il ministro Minniti fece un “discreto lavoro” sulla gestione dell’immigrazione? E ancora: perché sono stati lasciati scoperti nodi decisivi nella gestione del mercato del lavoro, come lo sfruttamento dei lavoratori della gig economy? E poi Di Maio non ha perso tempo per pensare ai rider.
Indispensabile dire che, rispetto al 1996-2006, il contesto è di differenza siderale: il bipolarismo centrodestra-centrosinistra è saltato in aria con l’avvento del Movimento 5 Stelle; la frammentazione della società è massima, tanto che abbiamo tre sindacati che si propongono di difendere i pensionati e i lavoratori garantiti e lasciano scoperti milioni di precari; la crisi dell’informazione tradizionale, incrociata con l’avvento del digitale e dei social media, ha prodotto un drammatico vuoto di informazione di qualità a disposizione delle masse, che oggi formano il proprio pensiero condividendo meme e leggendo titoli approssimativi quando non del tutto falsi — soprattutto a causa del perverso mix creato dagli algoritmi che generano i newsfeed, dove si mescolano intrattenimento e notizie, indignate invettive scandalistiche e teneri video di gattini.
Eppure il canovaccio del fronte contro il nemico comune sembra essere già pronto. Di fronte all’asse sovranista-populista del governo giallo-verde, si stanno creando le condizioni per la formazione di una barricata di segno opposto. Ma più che un coagulo di forze di segno diverso che condividono contenuti programmatici di stampo democratico-progressista, si sente già il sapore di un’accozzaglia trasversale contra personam (Matteo Salvini). Eppure, a chi voglia osservare la realtà con attenzione non deve assolutamente sfuggire che una vera battaglia contro questa destra si può condurre solo a una condizione: costruire un’identità politica nuova, che parli in modo nuovo a un popolo nuovo.
Leonardo Bianchi e Arianna Ciccone hanno mostrato come la strategia comunicativa del leader della Lega sia chiara: posizionarsi come premier in pectore, oscurando i suoi alleati (che per inciso hanno il doppio dei suoi voti) e dettando l’agenda politica in maniera bulimica, veloce, cinica, spietata. E accade allora quello che sperimentiamo tutti: i siti di informazione e i wall dei social rincorrono le sparate del ministro dell’interno, offrendogli uno spazio pressoché totale e incontrollato. Il vecchio principio pubblicitario del “purché se ne parli” trova così la sua piena e drammatica attuazione.
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Che sia composto da rozzi meme razzisti contro i migranti o invettive ben argomentate contro il cripto-fascismo salviniano, questo immenso aggregato di contenuti digitali produce una spirale regressiva, perché offre nel suo complesso un’enorme cassa di risonanza alle aggressioni sloganistiche del ministro dell’interno. E il risultato è duplice: da un lato, serrare i ranghi leghisti e aumentare la base di consenso a Salvini (che si offre come l’uomo della provvidenza che finalmente vuole cambiare le cose a favore del popolo); dall’altro, aggrega tutte le energie, le frustrazioni e le paure di chi teme una deriva autoritaria per il nostro paese, e sente l’urgenza di passare dalla condivisione di un post al terreno politico, senza sapere in nessun modo come muoversi.
A complicare l’aspetto (mass)mediatico della questione, va aggiunto però un elemento chiave: il rischio della normalizzazione è molto alto. Il pericolo di assuefarsi a questi continui punti di non ritorno che vengono marcati dalla propaganda salviniana (e dall’accondiscendenza del M5S) è massimo. Pensiamo, ad esempio, a quanto succede da un anno e mezzo nella più grande democrazia del mondo. Una minaccia reale che richiede alla stampa di informare e denunciare, e all’opposizione di indicare vie alternative a questo maledetto destino manifesto del popolo italiano – la vocazione conservatrice, populista e neofascista.
Non sarò solo io ad aver ricevuto messaggi di completo disorientamento dalle persone vicine. Forse a me è semplicemente successo con più drammaticità e frequenza, perché vivo (o meglio vivevo) nell’ultima città della Lombardia da sempre amministrata da forze di sinistra: Cinisello Balsamo. Al ballottaggio del 24 giugno, invece, abbiamo assistito al trionfo leghista con oltre 15 punti di distacco dal candidato del centrosinistra. E insieme a Lucca, Massa e Pisa anche l’ultimo fortino lombardo è stato espugnato. Nel frattempo, a livello nazionale, Potere al Popolo è fuori dal palazzo, Liberi e Uguali ha un pugno di parlamentari e il Pd è saltato completamente in aria, dibattendosi fra pulsioni renziane (il Matteo che venne prima di Salvini non vuole mollare in nessun modo), neo-renziane (Calenda) e tragicamente prive di prospettiva (Martina).
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Il disorientamento è normale. Di fronte a una destra aggressiva e violenta — forse la peggiore mai vista nella seconda repubblica — che traina l’azione di governo portando con sé (più o meno di peso) l’alleato grillino, non esiste di fatto alcuna opposizione. E il tentativo di aggregare un fantomatico fronte repubblicano propugnato da Calenda sembra una riedizione fuori tempo massimo del centrosinistra prodiano. Che fronte comune sarebbe? Sulla base di quali contenuti? A partire da quale analisi socio-economica della società? E che terreno culturale comune potrebbe avere?
La sconfitta è massima. Ma la sinistra, più che farsi dettare l’agenda politica e social-comportamentale dal ministro dell’interno, quasi fosse una riedizione dell’esperimento di Pavlov, dovrebbe fermarsi e prendersi finalmente il lusso di risolvere alcuni nodi essenziali:
- Quale popolo vuole rappresentare? I cittadini disillusi che non votano più? Quelli che votavano Pd e sono scivolati nel populismo dei grillini? Gli ex operai che votano Lega? I lavoratori precari atomizzati fra consegne a domicilio, call center e professioni creative? I cittadini di origine straniera e i giovani che aspettano lo ius soli? Oppure tutte queste categorie messe insieme?
- Che cosa significa fare politica? Vuol dire amministrare l’esistente nel migliore dei modi, o avere un’ipotesi di mondo da rendere vera con la nostra azione? Vuol dire restare nella scia del there is no alternative tatcheriano — fatto proprio da tutta la sinistra “moderata” — oppure decidere, una volta per tutte, che gli stili di vita vanno trasformati in maniera radicale per preservare le risorse naturali, garantire una vita dignitosa ai migranti e agli sfruttati, strappare dalla povertà crescenti strati della popolazione?
- Come si ricomincia a camminare? Quali sono le prime cinque azioni che si vogliono mettere in campo? Qual è la cosa prioritaria? Sarà un congresso balneare del Pd in luglio a salvare il partito? Sarà la cacciata di Renzi? Oppure si vuole aprire un cantiere costituente per una vera rifondazione della sinistra?
Sono domande insufficienti e rozze, ma necessarie. Bisogna mettere sentimento ed energia, lucidità e amore per non farsi travolgere da questa marea montante di nazional-populismo, senza farsi assalire dal terrore che vecchi mostri della storia si ripresentino, o sprecare lucidità in dibattiti digitali senza senso: bisogna andare a testa alta verso il futuro che la sinistra ha la responsabilità, finalmente, di costruire daccapo.
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