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Gli incendi di Èvia visti dal satellite Sentinel-2 del progetto Copernicus, via Twitter

Ormai è troppo tardi per contenere il surriscaldamento globale entro i limiti stabiliti dagli accordi di Parigi — bisogna ugire con ancora più urgenza.

Il sesto report dell’IPCC, il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, non lascia spazio a dubbi o margini interpretativi: è ormai troppo tardi per contenere il surriscaldamento globale, nei prossimi due o tre decenni, all’interno del limite degli 1,5 gradi centigradi stabilito dagli accordi di Parigi. L’unica cosa che le nazioni del mondo possono fare è impedire che l’aumento sia ancora più drastico — fino a 4 gradi centigradi in più rispetto all’era pre-industriale — con effetti devastanti in termini di ondate di calore e altri fenomeni meteorologici estremi, già adesso sempre più frequenti in tutto il mondo. “Non si torna indietro da alcuni cambiamenti nel sistema del clima” — spiega Ko Barrett, una delle vice-direttrici dell’IPCC — ma tagli immediati e sostenuti alle emissioni di CO2 “potrebbero davvero fare la differenza nel futuro climatico che abbiamo davanti.”

Approvato dai delegati di 195 governi e basato su oltre 14 mila studi scientifici, il report — che si può leggere qui integralmente, qui un riassunto in 42 pagine — è il documento più completo, finora, sulla scienza del cambiamento climatico. E non ha dubbi nel concludere che la crisi climatica attuale è causata dalle attività umane, che hanno causato cambiamenti senza precedenti in migliaia o centinaia di migliaia di anni, e in molti casi irreversibili. “Questo report è un allarme rosso per l’umanità,” ha commentato il segretario generale dell’Onu António Guterres. “Le sirene d’allarme sono assordanti, e le prove sono inconfutabili: le emissioni di gas serra dovute ai combustibili fossili e la deforestazione stanno soffocando il nostro pianeta e costituiscono un rischio immediato per miliardi di persone.”

Il report delinea cinque possibili scenari per il futuro del clima, in base all’andamento delle emissioni di anidride carbonica: nello scenario migliore, con una forte riduzione delle emissioni, la temperatura media salirà comunque di 1-1,8 gradi centigradi; nello scenario peggiore, potrebbe salire fino a 5,7 gradi entro la fine del secolo. Gli effetti sono già visibili ovunque: nel riscaldamento della superficie terrestre e degli oceani, nello scioglimento dei ghiacci artici — entro il 2050, si legge nel report, è probabile che l’Artico si trovi ad essere praticamente senza ghiaccio entro settembre almeno una volta — e negli eventi meteorologici estremi.

L’umanità dovrebbe rapidamente azzerare le proprie emissioni di anidride carbonica e di altri gas serra.

Anche un azzeramento, comunque, non basterebbe a invertire alcuni dei fenomeni innescati: “Per esempio, ci vorrebbero diversi secoli o millenni per invertire l’andamento dei livelli medi del mare, anche con un bilancio netto ampiamente negativo delle emissioni di CO2.” Per rendere più fruibili i risultati del report e per far capire come il surriscaldamento globale produrrà effetti devastanti su tutte le regioni del pianeta, l’IPCC ha anche realizzato un atlante interattivo con cui si possono esplorare le possibili conseguenze dei cinque diversi scenari in tutto il mondo.

L’allarme lanciato dagli scienziati dell’IPCC dovrà essere discusso durante la COP26 che si terrà a Glasgow il prossimo novembre, ma trovare un accordo serio e vincolante — ad esempio per mettere al bando una volta per tutte il carbone — sarà difficile come sempre. Alok Sharma, il parlamentare britannico che presiederà i lavori della COP26, si è appellato alle nazioni maggiormente responsabili delle emissioni globali perché “facciano la propria parte.” Per quanto possano essere ingenti gli sforzi necessari, azzerare le emissioni entro il 2050 non è tecnicamente impossibile: gli ostacoli sono soprattutto politici: dal lobbismo dei colossi petroliferi alle disuguaglianze globali, passando per la difficoltà nel finanziare la transizione ecologica. In più — argomenta Matthew Paterson su the Conversation — c’è la pandemia, che “distrae” la politica e l’opinione pubblica dalla crisi climatica, vista come meno impellente.

Nel frattempo, gli incendi continuano a devastare l’isola greca di Èvia/Eubea: ieri più di 2000 persone sono state evacuate, e il premier Mitsotakis ha chiesto scusa per gli errori nella gestione della crisi. Sarà una settimana di fuoco anche in Italia: con l’arrivo dell’anticiclone già battezzato Lucifero, otto città avranno temperature da “bollino rosso,” con picchi anche di 47-48 gradi al sud. L’Italia è prima in Europa per numero di roghi, seconda per ettari bruciati: dall’inizio dell’anno sono stati divorati dalle fiamme 102.933 ettari di terreno, il quadruplo rispetto alla media bruciata ogni anno dal 2008 al 2020. È importante notare che, nonostante la retorica della politica italiana assegni la maggior parte della colpa degli incendi ai mai ben identificati “piromani,” secondo molti studi questi eventi sono resi più probabili e più devastanti dagli effetti del cambiamento climatico.

— Leggi anche: La piaga degli incendi in Sardegna, dalla Carta de Logu al cambiamento climatico

Si può ormai dire che il ministero della Transizione ecologica sia stato un vero e proprio bluff: nel corso degli ultimi mesi, il ministro Cingolani non è sembrato granché preoccupato di intervenire in modo pratico sui nodi politici più rilevanti per l’Italia in materia di ambiente — hanno sollevato controversie, ad esempio, l’autorizzazione ad alcune trivellazioni avallata dal suo ministero, o le sue dichiarazioni sulla presunta necessità di tutelare l’industria dell’auto di lusso dalla conversione all’elettrico. Eppure gli effetti del cambiamento climatico rischiano di essere gravi in Italia quanto altrove.

Già nel 2018 la Commissione europea aveva sollevato l’allerta sul fatto che 4500 chilometri quadrati delle aree costiere italiane, ad esempio, si troveranno a rischio di inondazioni da innalzamento del livello del mare entro i prossimi 100 anni. La maggior parte di essi si trova nel Mare Adriatico settentrionale, ma anche alcune coste del Tirreno e dello Ionio possono diventare a rischio. La costa adriatica settentrionale, caratterizzata dal delta del Po e dalla laguna Veneta, è esposta ad alto rischio, dato che questa zona si trova sotto il livello del mare e ospita numerose aree residenziali, siti del patrimonio culturale e stabilimenti.

Probabilmente ci aspettano livelli di piogge estive più bassi del 20% rispetto a quelle attuali, con aumento di siccità e incendi devastanti come quelli a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane in Sardegna e altrove nella penisola. Le precipitazioni saranno più rare ma anche più concentrate, con bombe d’acqua concentrate in periodi molto brevi che scateneranno fenomeni di rischio idrogeologico. Un altro pesante impatto si registrerà sulle infrastrutture del paese che – già spesso bisognose di manutenzione – difficilmente saranno in grado di affrontare situazioni climatiche simili a quelle tropicali.

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