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in copertina, foto cc Linda Vignato

Alla ricerca di un fantomatico consenso centrista, i partiti progressisti hanno accettato infiniti compromessi con le ideologie che avrebbero dovuto fermare

La parola “resilienza” è un prestito dal linguaggio della scienza dei materiali e della psicologia. Ha avuto grande successo prima in ambito aziendale e poi in ambito politico. Ormai è ovunque — anche nel nome del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza — e piace molto al centrosinistra. Oggi, però, ci celebra la resistenza — una parola molto più forte di resilienza, che indica solo la capacità di reagire ai traumi. Resistenza indica una forma di opposizione attiva alle aggressioni, proprio come quella messa in campo dai partigiani.

Nell’ultimo decennio si è assistito a un rafforzamento di formazioni politiche di estrema destra e fascistoidi. Peggio ancora, i loro obiettivi e le pratiche politiche dell’estrema destra hanno contaminato molte delle forze parlamentari e istituzionali che si definiscono antifasciste.

“C’è ancora un fascismo, non necessariamente identico a quello del passato. C’è un nuovo verbo: non siamo tutti uguali, non tutti abbiamo gli stessi diritti. Dove questo verbo attecchisce, alla fine c’è il lager.” È una citazione di Primo Levi, riportata sui materiali delle manifestazioni della rete No ai CPR, che ieri è scesa in strada in molte città d’Italia per protestare contro le condizioni carcerarie a cui sono costretti i migranti nei CPR, colpevoli di nessun crimine.

La lotta della rete No ai CPR è essenzialmente antifascista, e utilizza il termine lager per sottolineare una continuità tra gli orrori contro cui hanno combattuto i partigiani e quelli del mondo contemporaneo. È un paragone che ha fatto anche Roberto Saviano, scrivendo della strage di stato che è costata la vita a 130 persone, morte affogate al largo della Libia.

Non è reductio ad hitlerum. Oggi, l’antifascismo militante e i valori di libertà e uguaglianza della Resistenza sono portati avanti da associazioni e gruppi composti da cittadini comuni, piuttosto che dalla politica. Partiti e sindacati che si identificano come antifascisti negli ultimi anni hanno accettato sempre più regolarmente patti col diavolo in nome della scusante della settimana: la sicurezza, l’economia, “la legalità.”

L’idea è stata sottolineata a Milano anche da una campagna di manifesti di Lato B. Sì: lasciar morire in mare, rinchiudere i migranti nei CPR e intercettare giornalisti non indagati sono politiche fasciste. Così come lo sono accettare senza batter ciglio la violenza contro i carcerati nelle prigioni, o ostacolare l’accesso e la fruizione alla cultura. 

Questa mattina il Partito democratico ha postato su Facebook una dichiarazione di Enrico Letta che dice che i partigiani erano “italiani come noi,” e ci garantisce che, anche loro avevano “sogni, progetti, paure.” OK, e noi che pensavamo fossero alieni. Se sulla collocazione progressista del Partito democratico si potrebbe discutere a lungo, certamente il Pd e i suoi iscritti si identificano come antifascisti. 

Il Movimento 5 Stelle, la forza vista come necessaria per la coalizione di centrosinistra, mentre scriviamo è ancora in silenzio stampa — forse un passo avanti rispetto a quando chiamava “salme” chi andava in manifestazione il 25 aprile, e pubblicava riflessioni sulla possibilità che Mussolini non avesse ordinato l’uccisione di Matteotti, ucciso “a sua insaputa.” 

Il Partito democratico invece è lo stesso che, con Marco Minniti, ha codificato la guerra alle ONG. Ed è lo stesso che nel governo Conte bis ha lasciato sostanzialmente inalterate le politiche repressive di Matteo Salvini, sui migranti e sulla libertà d’espressione di chi protesta. Leggi che la base del partito, solo qualche mese prima, aveva contestato in piazza, sono state tacitamente accettate, in nome di un governo che doveva essere di discontinuità. 

Ma può il Partito democratico, e in generale il centrosinistra, definirsi antifascista?

Negli ultimi anni il Pd si è progressivamente staccato dalla parola stessa “resistenza” e dall’immaginario connesso al 25 aprile, quasi come se se ne vergognasse. Fin dal secondo dopoguerra, l’Italia ha avuto un rapporto complesso con la propria eredità fascista. Tantissime persone hanno continuano a identificarsi come fasciste, ma anche i partiti di destra più estrema cercano goffamente di scansare questa etichetta. 

Questo falso rinnovamento, fin dai tempi della Democrazia cristiana, ha permesso che si creasse una utile continuità di obiettivi e ideali tra i frammenti ancora esplicitamente fascisti e i partiti di destra “di governo,” che hanno potuto continuarne il lavoro in modo più silenzioso. Così, lo stesso Silvio Berlusconi che piangeva per i migranti, presiedeva il governo che ha siglato la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, firmata, appunto, da uno degli eredi dell’MSI. 

Nei decenni questa continuità che dal fascismo gronda in tutta la politica italiana conservatrice ha attecchito anche nei partiti progressisti. Oggi tutti i partiti di centrosinistra trovano una propria identità in opposizione all’estrema destra. Ma fanno molta più fatica a darsi un’identità in modo attivo, riconoscendosi in obiettivi comuni e in una visione di futuro, diventando infine complici degli stessi partiti fascistoidi di cui si dichiarano avversari.

Questa rinuncia agli ideali, studiata e accettata a tavolino nella speranza di raccogliere elettorato, si è rivelata comicamente inefficace e ha reso questi partiti più fragili. Le linee rosse si sono ridotte a piccoli fastidi, da scansare uno alla volta per raggiungere il potere. Il Partito democratico è stato al potere quasi sempre nell’ultimo decennio, eppure la politica del paese non è mai stata così spostata a destra.

È necessario ricordare quindi che l’antifascismo di cui ama fregiarsi il centrosinistra italiano non significa tanto resilienza — un termine molto di moda nella retorica del Pd perché indica una forma di opposizione passiva e addomesticata. Piuttosto, l’antifascismo significa resistenza: una parola che indica una forma di opposizione attiva, proprio come quella dei partigiani, che si celebra il 25 aprile.

Resistenza significa opporsi attivamente all’istituzione dei campi di concentramento su suolo italiano, proprio come la rete Mai più lager – No ai Cpr si oppone ai Cpr. Resistenza significa sostenere e contribuire in ogni modo possibile, anche solo con parole di sostegno esplicito e pubbliche, alle missioni di salvataggio delle Ong nel Mediterraneo, che sono i Giusti fra le nazioni di domani. Resistenza significa prestare solidarietà agli operai del magazzino Tnt di Piacenza, che per essersi opposti alle nuove forme di schiavismo in nome della dignità del lavoro sono stati arrestati, denigrati e licenziati, e scendere in piazza con loro. Resistenza significa opporsi agli abusi delle forze dell’ordine dovunque siano perpetrati: in un centro di permanenza per il rimpatrio, in una caserma — sempre di Piacenza — o in Valsusa, dove settimana scorsa una manifestante è stata colpita in pieno volto da un candelotto di lacrimogeno sparato molto probabilmente ad altezza d’uomo. Resistenza significa stare dalla parte dei manifestanti civili del Myanmar che protestano contro il golpe militare a prezzo della vita, con i giornalisti turchi in carcere e con i militanti curdi dei vari partiti che si oppongono al regime di Erdogan.

Resistenza significa scendere in piazza per ricordare i 40 mila partigiani morti combattendo armi in pugno il regime nazifascista, caduti provando a costruire per l’Italia un futuro di libertà.

Buon 25 aprile.

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Blogger, designer, cose web e co–fondatore di the Submarine.