Oggi è il 75esimo anniversario della Liberazione italiana dal nazifascismo, ma per la prima volta non sarà possibile partecipare alle manifestazioni e ai cortei che hanno sempre segnato questa ricorrenza. Specialmente a Milano, dove un 25 aprile senza corteo è difficile da immaginare anche ora che lo stiamo vivendo.
I cortei sono anche, soprattutto, un’occasione per cantare tutti insieme le canzoni “resistenziali” che chiunque abbia avuto un minimo di educazione antifascista sa a memoria. Il patrimonio delle musiche della Resistenza, però, è molto più complesso, profondo e stratificato rispetto al canone di quattro o cinque canzoni a cui si limita la conoscenza della maggior parte di noi, esclusi gli appassionati di musica popolare. E anche quelle quattro o cinque canzoni, di solito, hanno alle spalle una storia complessa, fatta di continue riprese e rielaborazioni.
Dato che siamo ancora chiusi in casa e abbiamo tempo di fare lunghi viaggi di esplorazione etnomusicologica su internet, abbiamo chiesto a Elio Biffi, tastierista dei Pinguini Tattici Nucleari, di raccontarci la storia di alcune canzoni di Resistenza a lui care.
Le canzoni resistenziali, per come le conosciamo oggi, sono per la maggior parte frutto di una rielaborazione successiva, che è passata attraverso la ripresa dei valori partigiani da parte di altri gruppi sociali nel corso del Novecento — in particolare il movimento studentesco e operaio negli anni Sessanta e Settanta — e attraverso una contaminazione di generi e stili diversi, dalla world music alla musica irlandese.
Anche le canzoni che cantavano i partigiani durante la guerra, però, erano a loro volta una rielaborazione di canti e musiche precedenti. Non dobbiamo immaginare, infatti, che qualcuno, durante una notte di veglia, si sedesse intorno al fuoco e decidesse a tavolino di comporre una nuova canzone da usare come inno per la propria brigata. Non avendo necessariamente una formazione musicale (e strumenti musicali con sé), i partigiani attingevano perlopiù alle canzoni che già conoscevano, adattando i testi alle finalità del momento.
Le canzoni resistenziali, per come le conosciamo oggi, sono per la maggior parte frutto di una rielaborazione successiva, che è passata attraverso la ripresa dei valori partigiani da parte di altri gruppi sociali nel corso del Novecento — in particolare il movimento studentesco e operaio negli anni Sessanta e Settanta — e attraverso una contaminazione di generi e stili diversi, dalla world music alla musica irlandese.
Anche le canzoni che cantavano i partigiani durante la guerra, però, erano a loro volta una rielaborazione di canti e musiche precedenti. Non dobbiamo immaginare, infatti, che qualcuno, durante una notte di veglia, si sedesse intorno al fuoco e decidesse a tavolino di comporre una nuova canzone da usare come inno per la propria brigata. Non avendo necessariamente una formazione musicale (e strumenti musicali con sé), i partigiani attingevano perlopiù alle canzoni che già conoscevano, adattando i testi alle finalità del momento.
È questo il caso di Bella Ciao, la canzone di Resistenza più nota — ora trasformata in un fenomeno mainstream globale dalla Casa di Carta — ma derivata probabilmente da un canto delle mondine piemontesi, in cui è stato introdotto l’elemento della morte del partigiano.
A volte si trattava di parodie: Valsesia, inno della brigata di Cino Moscatelli, è la rielaborazione di una marcia militare cantata dalla X Mas e dagli Arditi del Popolo.
Un esempio ancora più interessante è quello di Pietà l’è morta, scritta dal comandante partigiano cuneese Nuto Revelli, che era stato negli Alpini durante la campagna di Russia. Pietà l’è morta è appunto derivata da due canti degli Alpini, Sul ponte di Bassano e Sul ponte di Perati, che raccontavano di due sonore sconfitte subite dall’esercito italiano (durante la Prima e la Seconda guerra mondiale) e, per questo, non erano ben viste dai comandi militari.
Oltre il ponte offre invece l’esempio di una canzone resistenziale scritta a posteriori, cioè dopo la fine della guerra, ma con l’intento esplicito di coltivare e portare avanti la memoria dell’esperienza partigiana. Scritta da Italo Calvino per il progetto di cantautorato popolare Cantacronache, proprio per il fatto di essere stata concepita diversi anni dopo la Resistenza è una delle canzoni più esplicite, dal punto di vista dell’immaginario, nella rievocazione di quell’esperienza. Ed è anche una delle poche, a quanto ne sappiamo, ad avere una melodia originale.
Per approfondire: su Patria Indipendente, il giornale online dell’Anpi, c’è una lunga rassegna con la storia di alcune delle canzoni più note della Resistenza.
Un esempio ancora più interessante è quello di Pietà l’è morta, scritta dal comandante partigiano cuneese Nuto Revelli, che era stato negli Alpini durante la campagna di Russia. Pietà l’è morta è appunto derivata da due canti degli Alpini, Sul ponte di Bassano e Sul ponte di Perati, che raccontavano di due sonore sconfitte subite dall’esercito italiano (durante la Prima e la Seconda guerra mondiale) e, per questo, non erano ben viste dai comandi militari.
Oltre il ponte offre invece l’esempio di una canzone resistenziale scritta a posteriori, cioè dopo la fine della guerra, ma con l’intento esplicito di coltivare e portare avanti la memoria dell’esperienza partigiana. Scritta da Italo Calvino per il progetto di cantautorato popolare Cantacronache, proprio per il fatto di essere stata concepita diversi anni dopo la Resistenza è una delle canzoni più esplicite, dal punto di vista dell’immaginario, nella rievocazione di quell’esperienza. Ed è anche una delle poche, a quanto ne sappiamo, ad avere una melodia originale.
Per approfondire: su Patria Indipendente, il giornale online dell’Anpi, c’è una lunga rassegna con la storia di alcune delle canzoni più note della Resistenza.