m5s-cover-03

Dopo le elezioni, il M5S torna ad essere scosso da una forte crisi di identità, tra chi vuole continuare un percorso di istituzionalizzazione e chi sogna un ritorno del partito “sfascista” e contro le alleanze

Dopo i sorrisi e le frasi di circostanza post-elettorali, tutti i partiti e i politici italiani stanno cercando di capire cosa fare nei prossimi mesi. Nonostante il “sì” al referendum sia stato sostenuto da praticamente tutte le forze politiche, è chiaro che — come scrivevamo ieri — alcuni escono tutto sommato rafforzati da questo voto, mentre altri ne escono drammaticamente indeboliti. Il più lanciato sembra essere il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che — come al solito, senza fare o proporre praticamente nulla di costruttivo — ha visto molto aumentata la propria autorevolezza sul partito.

Il Movimento 5 Stelle non se la sta passando benissimo. Dopo i primi tentativi di Di Maio di far passare la vittoria del sì come l’ennesima “giornata storica”, tutti nel partito si sono accorti che alle elezioni amministrative il consenso per il Movimento è praticamente evaporato. Se n’è accorto soprattutto Alessandro Di Battista, che ha sferrato un duro attacco alla gestione Di Maio del Movimento, sostenendo che quella di domenica è la “più grande sconfitta della storia” del M5S.

Nel partito sarebbe in corso una vera e propria “guerra tra bande,” con un tutti contro tutti tra accuse e veleni reciproci, in cui non si capisce chi voglia fare cosa, a parte manifestare sconcerto o disappunto. Si può tracciare una linea tra governisti e “ribelli,” guidati appunto da Di Battista, con alcuni commentatori che — addirittura — sostengono ci sia aria di scissione, e di trame di Di Battista per affossare il governo. Tutti concordano sul fatto che gli “Stati generali,” una formula che va molto di moda nel lessico politico di oggi, e che nel caso del Movimento si dovrebbe riferire a un incontro su più giorni di vago tenore leopoldesco, vadano convocati quanto prima.

In realtà, presentare il risultato alle amministrative come un fallimento particolarmente grave per il Movimento è una parziale forzatura: certamente la debolezza sul territorio resta un problema strutturale gravissimo per il M5S, ma è anche vero che il partito della Casaleggio Associati è stato sempre colpito — almeno nella sua seconda incarnazione, quella dopo l’esplosione nazionale — da un profondo effetto NIMBY — acronimo statunitense per “non nel mio cortile.” A livello locale, il Movimento riesce a raccogliere consenso solo quando organizzazioni spontanee, che in altri contesti si sarebbero organizzate in liste civiche, sposano il brand M5S. Quando invece l’organizzazione cerca di presentarsi con un candidato attraverso meccanismi “d’alto,” o più convenzionalmente politici, semplicemente non incontra il favore dell’elettorato. Questo non vuol dire che si possa minimizzare la crisi dei consensi del Movimento 5 Stelle — semplicemente il risultato elettorale di domenica e lunedì non ne è né una causa né una spiegazione sufficiente.

La crisi interna al partito sembra essere sostanzialmente di identità: tra chi vuole completare la trasformazione in partito istituzionale, certo lontano dai precedenti exploit ma che sappia navigare le stanze di potere con il proprio 10–15% di consenso; e chi invece vede in quella strada una morte rallentata, e sogna di riportare il partito alle proprie origini barricadere, contrarie ad ogni alleanza, sfasciste. Entrambe, tuttavia, sono idee molto limitanti e miopi di un futuro di partito: nessuna delle parti in causa, ad esempio, è ancora riuscita a produrre una “proposta” attivamente politica per dimostrare la propria diversità dalle altre correnti. Insomma: perché cambiare per poi fare e dire le stesse cose? L’unica necessità sembra non voler essere al governo, un meccanismo che, forse per la prima volta, porrebbe davvero il Movimento 5 Stelle in una posizione antipolitica.

Ma il governo è dunque a rischio? Ufficialmente no, ma quando volano i piatti, succede che arrivino in faccia anche a chi non è coinvolto nella lite. Il presidente del Consiglio, Conte, sta intanto cercando di tenersi al di sopra delle varie bufere dei partiti, aprendo alle richieste progressiste del Pd ma cercando comunque di prendere tempo e di non fare azioni avventate verso i 5Stelle, che visto il loro stato di agitazione potrebbero irrigidirsi su questioni di principio se messi davanti a una scelta troppo repentina. I numeri della maggioranza, soprattutto in Senato, sono piuttosto risicati, e il rischio di essere seduti su una bomba ad orologeria, per quanto non drammaticamente grave o immediato, c’è.

Sostieni l’informazione indipendente di the Submarine: abbonati alla nostra newsletter quotidiana. La prima settimana è gratis