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L’“effetto sardine” rischia di essere un ulteriore appiattimento per un partito a cui l’ultima cosa rimasta è spacciarsi per quelli non–cattivi, non–corrotti. Ma solo questo.

Non sembra vero, ma la campagna elettorale per le elezioni in Emilia-Romagna è finita. È durata a lungo, più di sei mesi, con lo scoppio della vicenda artificiale di Bibbiano — un paese che forse ora potrà trovare un po’ di pace — ormai all’inizio dello scorso luglio. La comparsata di Lucia Borgonzoni in Senato con la maglietta “parliamo di Bibbiano,” una delle strumentalizzazioni di teorie del complotto più clamorose della storia recente italiana, risale al 9 settembre, giorno della fiducia al governo Conte 2. All’epoca Bibbiano era il nostro pizzagate, una teoria del complotto utilizzata a scopo iniziatico per costruire consenso politico. Da Bibbiano, passando per la parata di salami, coppe e forme di parmigiano, è stata di fatto una campagna elettorale nazionale, al centro del dibattito politico e mediatico quotidiano di tutto il paese.

In effetti la destra ha deciso con convinzione di rendere queste elezioni una sorta di referendum sia su Matteo Salvini che sul gradimento dei cittadini emiliani nei confronti del governo nazionale. Una strategia che negli ultimi anni in Italia non ha mai pagato — vedi referendum del 4 dicembre 2016 — ma che ciononostante continua a sembrare un’ottima idea a un sacco di politici che vogliono farsi passare per freschi e nuovi. Il fatto che Salvini abbia perso non significa, però, che automaticamente quello che rimane del centrosinistra italiano abbia vinto.

L’humus elettorale in Emilia–Romagna è completamente diverso da quello del resto del paese, per cui è difficile sbilanciarsi in proiezioni nazionali su questo indirizzo di voto — ma sembra che l’alleanza “strutturale” col M5S stia servendo al Partito democratico a fare la stessa cosa che ha fatto la Lega con il primo governo Conte: avvicinare, o riavvicinare elettori che si sono persi per strada grazie a diversi anni di gestione completamente demenziale da parte del partito-azienda di Casaleggio, tra leggi che apertamente andavano contro il proprio bacino elettorale, misure contentino presentate con la tracotanza di chi considera ogni briciola di cose fatte “una giornata storica,” e una spocchia e presunzione che sembravano diventate connaturate al partito.

Non è chiaro, però, dopo la vittoria in Emilia–Romagna, dove conti di andare il Partito democratico. Al netto del ringraziamento alle Sardine — che sicuramente saranno al centro del dibattito del prossimo congresso, dove si discuterà dei loro numerosi e solidi contenuti politici — il Partito democratico resta in una sorta di stasi, quasi una morte cerebrale che preannuncia un futuro poco ambizioso. Su questo sito avevamo detto più volte che il Pd sarebbe stato in grado di mangiarsi il M5S come aveva fatto la Lega solo se avesse saputo presentare una proposta forte: e invece se l’è mangiato lo stesso, nonostante la direzione del partito sia più inconsistente che mai.

Ed è forse proprio qui il rischio principale dell’“effetto Sardine:” un ulteriore appiattimento di un centrosinistra a cui l’ultima cosa rimasta è spacciarsi per quelli non–cattivi, non–corrotti, gli eredi di una questione morale trascinata fino allo sfinimento. Ma solo questo. La fotografia twittata da Zingaretti durante lo spoglio delle schede, quando ormai la vittoria pareva consolidata, è una buona metafora del completo vuoto autocompiaciuto che guida l’azione del Partito oggi. 

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Questo vuoto è potenzialmente più insidioso in quanto oggi è in realtà difficilmente attaccabile: lo stop a Salvini e l’autodistruzione del M5S sono bastati a far sì che, tramite quella che resta un’elezione locale, il Pd si senta tornato indiscutibilmente il principale partito Italiano, unica alternativa al sovranismo. Zingaretti, pur non proponendo sostanzialmente nulla di rilevante per il partito e per il paese, è riuscito con la sua inazione a farsi passare per un segretario forte, un grande stratega. Ma se questa inerzia può aver portato a un risultato di breve termine come quello di oggi, è altamente improbabile che porti a qualcosa di buono a medio, e ancora meno sul lungo periodo. Conte da settimane ripete, quasi come un mantra, l’espressione “Altri tre anni di riforme.” OK, tutti bravi, ma parliamone, quali sarebbero queste riforme? Qual è il programma del Partito democratico? 

Il Pd, insomma, davanti allo specchio può dirsi solo si essere riuscito a incassare il voto degli elettori spaventati. Se c’è un dato positivo che non si può minimizzare è questo: il fascismo sbandierato da Salvini nell’ultimo mese e mezzo non gli ha fatto guadagnare voti — ha ri-mobilitato le forze a lui antagoniste. Si tratta di un passaggio fondamentale, perché mina la certezza che il “ritorno dei fascismi” sia un progetto politico di scontato successo, cosa che, fino all’altro ieri, non era per niente scontato. Va notato che però essere contro i fascisti non vuol dire essere antifascisti — qualcuno lo dovrebbe spiegare anche al sindaco Sala — e essere alternativi all’estrema destra non vuol dire essere di centrosinistra. 

Inoltre, la vittoria di ieri non significa ovviamente che i danni di questo rigurgito fascista non siano già stati tanti e di lungo termine. Su tutti, la grande avanzata di Fratelli d’Italia, che ha visto moltiplicare i propri voti nella regione addirittura per cinque — passando dall’1,91 all’8,6% dall’ultima tornata elettorale in regione. Un partito che ha una tradizione e una trazione fascista ancora più chiare di quelle salviniane, ma che è riuscito a presentarsi come vagamente più innocuo del brutto e cattivo segretario leghista, il cui consenso rischia di essere più solido, duraturo, diffuso in modo più omogeneo nel paese e più pericoloso sul lungo termine.