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Gli attivisti di XR con lo sterco che hanno portato davanti alle porte della location della COP25 di Madrid. In copertina, foto via Twitter

Il fallimento della COP25 ha dimostrato che i meccanismi internazionali per la lotta al cambiamento climatico sono irrimediabilmente compromessi. Cosa possiamo fare nel 2020 per impedire che alla COP26 si ripeta lo stesso disastro?

La COP25 è finita risolvendosi in un nulla di fatto e tutti, politici e attivisti per l’ambiente, hanno già lo sguardo rivolto verso la COP26, che si dovrebbe tenere a Glasgow dal 9 al 19 novembre 2020. C’è tanta speranza e attesa — soprattutto da parte italiana — e un misto di buoni propositi (sempre i soliti) che difficilmente però modificheranno il contesto di sfiducia in cui si troveranno ancora invischiati gli Stati tra un anno. 

Le difficoltà emerse dalla COP25 non erano difficili da prevedere e sono frutto di dissapori cresciuti sì negli ultimi anni, ma che erano stati solo ignorati — e non risolti — nel tanto vantato “spirito positivo” degli accordi di Parigi. Perché l’anno prossimo non si ripeta esattamente la stessa situazione, devono cambiare molte cose. E sono cambiamenti che possono arrivare solo grazie a una fortissima pressione dal basso.

Il fallimento della COP25

Il 13 dicembre, durante quella che doveva essere l’ultima giornata della conferenza sul clima di Madrid, il Segretario Generale dell’ONU António Guterres si è appellato ai Paesi per “lanciare un messaggio di ambizione al mondo allineando i loro obiettivi climatici e impegnandosi a rafforzarli.” Il messaggio evidentemente non è stato raccolto e le scorse due settimane i 196 Stati si sono spaccati su più punti e in generale sulla definizione di un piano più “aggressivo” e ambizioso di riduzione delle emissioni di anidride carbonica. 

Le ultime due giornate della conferenza si sono trasformate in una farsa: tantissimi rappresentanti dei Paesi più poveri non hanno potuto prendere parte all’estensione perché lo spostamento dei voli di ritorno non era previsto dal loro portafoglio, mettendo a repentaglio il numero legale stesso della conferenza. 

https://twitter.com/KarlMathiesen/status/1206133903045484544

Al fronte più convinto sulla lotta al cambiamento climatico, guidato dall’Unione Europea e dagli Stati insulari, si è opposto uno schieramento di Paesi scettici — Cina, Brasile, India e ovviamente Stati Uniti —, sostanzialmente quelli che influiscono di più nella quantità di emissioni rilasciate ogni anno in atmosfera. Questi quattro Paesi, da soli, producono infatti circa il 50% dell’anidride carbonica totale emessa. 

Il risultato è stato un testo pesantemente compromesso, al punto da ricevere lodi perfino dal Brasile. Quanto poco ambizioso è il testo? Nelle prime bozze chiedeva ai Paesi firmatari di aggiornare i propri piani per limitare le emissioni nel corso del 2020, una ulteriore revisione aveva ridotto l’obbligo a “comunicarli di nuovo,” nel testo definitivo si ricordano gli impegni presi a Parigi, ma non li si codifica in nessun modo.

L’unica certezza che si avrà nel 2020 alla COP26 è che Cina, Stati Uniti, Brasile e India sostanzialmente continueranno a inquinare come hanno fatto finora. 

Non si può nemmeno sperare troppo in un cambio rapido di mentalità. Il Brasile e gli Stati Uniti al momento sono guidati — e lo saranno anche nei prossimi mesi — da presidenti apertamente scettici riguardo le cause e le conseguenze del cambiamento climatico. Gli Stati Uniti si stanno anche gradualmente disimpegnando dall’accordo di Parigi siglato nel 2015, e se la vittoria di un democratico alle prossime elezioni statunitensi potrebbe sbloccare parzialmente la situazione facendo rientrare gli Stati Uniti nell’accordo, in ogni caso la situazione rimarrebbe bloccata fino a gennaio 2021.

Intanto l’Unione Europea proverà ad azzerare le proprie emissioni entro il 2050

Il 2 dicembre, poche ore prima dell’inizio della COP25, la Commissione Europea annunciava il “New Green Deal,” un piano per azzerare le emissioni di anidride carbonica prodotte dall’Unione Europea entro il 2050. Nelle linee guida per la nuova commissione presentate all’inizio del suo mandato, Ursula von der Leyen scriveva che l’Europa si deve sforzare ancora di più se vuole essere il primo continente neutro dal punto di vista climatico. La presa di posizione della nuova Commissione Europea è ammirevole e rappresenta di fatto la risposta netta e rapida che avrebbero desiderato a livello globale gli scienziati e i milioni di manifestanti che, spronati dall’attivista Greta Thunberg, nel corso dell’ultimo anno sono scesi nelle piazze di tutto il mondo. Se è vero che il problema del riscaldamento globale non è più focalizzato sul quando si verificherà questa eventualità — è già in corso! — ma sul quanto impatterà sulle nostre vite, bisogna sottolineare come il verificarsi nei prossimi decenni di uno scenario catastrofico — caratterizzato da un aumento medio delle temperature di oltre 2 °C — dipenda quasi interamente dal tipo di soluzioni che si adotteranno nei prossimi anni — più probabilmente già nei prossimi mesi. 

Ma l’Unione Europea, da sola, realisticamente può far poco. Si stima che i ventotto paesi che la compongono producano il 14% circa dell’anidride carbonica emessa ogni anno al mondo. Un impegno dell’Unione Europea nel ridurre le emissioni implicherebbe inoltre un accordo estremamente complicato tra i ventotto stati, che includono anche paesi scettici riguardo le norme da adottare per contrastare il cambiamento climatico come la Polonia e la Repubblica Ceca. E anche se si dovesse mai raggiungere un accordo, che complicherebbe i rapporti tra Stati e renderebbe più acute le tensioni politiche già esistenti all’interno dell’unione, questo porterebbe a una riduzione poco significativa delle emissioni globali. Ma lo scopo di questo piano potrebbe anche essere quello di trainare una rivoluzione verde globale facendo da apripista alla transizione verde e incoraggiando altri Stati a farne parte. Nel frattempo l’Europa, entro il 2030, proverà a ridurre del 40% (rispetto al 1990) le proprie emissioni di gas serra, aumentando la quota di energia prodotto dalle energie rinnovabili — fino al 32% — e puntando sul miglioramento dell’efficienza energetica.

In Italia è stata approvata la “legge clima”

Nel mezzo della conferenza di Madrid, il 10 dicembre in Italia è stata approvata alla Camera la “legge clima”. Per il ministro dell’ambiente Sergio Costa è un piccolo successo e un passo avanti verso il “Green new deal.” In realtà il testo prevede pochi soldi, ma soprattutto ancora una volta non si vede l’ombra di un piano strategico a lungo termine. 

Ecco l’elenco delle misure che non contribuiranno a fermare il cambiamento climatico nei prossimi anni: 
  • Incentivi per la rottamazione dei veicoli più vecchi (fino alla classe Euro 3) e per la sostituzione con abbonamenti al trasporto pubblico o con biciclette. Vengono stanziati 5 milioni per il 2019, 70 milioni per il 2020, 70 milioni per il 2021, 55 milioni per il 2022, 45 milioni per il 2023 e 10 per il 2024. 
  • Il finanziamento di progetti per la creazione, il prolungamento, l’ammodernamento e la messa a norma di corsie preferenziali per il trasporto pubblico locale con 20 milioni per ciascuno degli anni 2020 e 2021. 
  • L’implementazione del trasporto pubblico scolastico con mezzi ibridi o elettrici (10 milioni per il 2020 e 10 milioni per il 2021). 
  • “Il finanziamento di un programma sperimentale di messa a dimora di alberi, di reimpianto e di silvicoltura, e per la creazione di foreste urbane e periurbane, nelle città metropolitane” — 15 milioni per il 2020 e altrettanti per il 2021.
  • L’introduzione di incentivi per chi vende prodotti sfusi, anche in questo caso 20 milioni per il 2020 e 20 milioni per il 2021. 

Di questo passo la COP26 potrebbe essere inutile

Il fallimento della COP25 rivela come i meccanismi di dibattito per il clima a livello mondiale siano effettivamente compromessi. L’esempio più evidente dell’impossibilità di raggiungere un accordo che possa salvare il pianeta è ben riassunto dal blog di David Hone — advisor sul cambiamento climatico di Shell —, in cui si insiste che prima di parlare di riduzione di emissioni sia necessario crearne le “condizioni economiche.” Un ragionamento che sarebbe forse comprensibile arrivasse da un’altra campana, ma che sembra una esplicita richiesta di far fare altri soldi a Shell, mentre si continua a parlare e basta di limitare le emissioni.

Alla sessione plenaria del Parlamento europeo di oggi si parlerà, tra le altre cose, del fallimento della COP25. L’inserimento dell’argomento, su richiesta del gruppo di S&D, sottolinea l’impegno delle istituzioni europee, ma, come dicevamo sopra, l’Europa da sola può fare poco. 

Per altro, va sottolineato come, se è vero che i piani europei sono i più ambiziosi che abbiamo visto finora, è altrettanto vero che anche questi non sarebbe sufficienti per impedire gli effetti catastrofici del cambiamento climatico, in ogni caso — non per niente il “manifesto” stesso di von der Leyen insisteva sottolineando che i target per il 2030 non fossero abbastanza ambiziosi.

Da Fridays for Future a Extinction Rebellion, non si può dire che le piazze del mondo non abbiano espresso la loro posizione riguardo l’emergenza climatica. Ma di fronte al fallimento della COP25 è evidente che quelle che finora ci sono sembrate manifestazioni di massa non sono abbastanza. Per salvare il mondo servirà un movimento di protesta ancora più vasto e certamente più politicamente organizzato.

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