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È il Campus Cascina Rosa, nato nel 1978 accanto all’Istituto Nazionale dei Tumori. Dal 1995 organizza corsi di cucina e lezioni aperte per diffondere una maggiore consapevolezza alimentare: siamo andati a vedere come funziona.

Quando si intraprende una terapia oncologica, il cibo non è certo il primo pensiero. Gestire la malattia può diventare un’attività totalizzante, uno sforzo quotidiano mantenersi nel confine della propria vita nel momento in cui la si sente più fragile: alzarsi, vestirsi, lavarsi, guardarsi allo specchio, avere cura di sé e di un corpo scoperto improvvisamente vulnerabile, diventano compiti di cui si prende coscienza dolorosamente, gettati improvvisamente fuori dagli automatismi della routine.

Il cancro è una delle malattie più temute nella società occidentale. Una paura tale da meritare un nome di battesimo e un posto a sé negli studi di psicologia clinica: la cancerofobia, la fobia di ammalarsi di tumore, capace di innescare meccanismi ossessivi in chi ne soffre e causare importanti disfunzioni nella vita quotidiana, un po’ come l’ipocondria[footnote]M. Reich, C. Gaudron, N. Penel, “When cancerophobia and denial lead to death” (2009)[/footnote].

Da molti anni ormai la ricerca scientifica indaga i potenziali fattori che predispongono allo sviluppo del tumore, e da molti anni le ricerche suggeriscono un nesso cruciale fra l’insorgenza del cancro e gli stili di vita. Come per altre patologie, la sua manifestazione è in larga misura dovuta al caso — ciascuno di noi può dire di aver avuto almeno un parente, uno zio fumatore incallito, che è vissuto a lungo e non ha mai sviluppato un tumore ai polmoni. Dall’altra parte, le nostre scelte giornaliere sul lungo periodo possono ridurre o accrescere di molto le nostre possibilità di perdere al gioco, pur non escludendo mai del tutto il rischio. 

La ragione di questa correlazione tra stile di vita, alimentazione e cancro risiede nelle dinamiche profonde che regolano lo sviluppo delle neoplasie, ancora per molti aspetti inesplorate, ma che decenni di ricerca hanno consentito, almeno in parte, di illuminare. La conclusione a cui si è giunti è che circa un terzo delle neoplasie mortali potrebbe essere prevenuto semplicemente modificando, a tempo debito, il regime alimentare[footnote]M. Reich, C. Gaudron, N. Penel, “When cancerophobia and denial lead to death” (2009). R. Doll, R. Peto, “The causes of cancer: quantitative estimates of avoidable risks of cancer in the United States today” (1981). W.C. Willett, “Diet, nutrition, and avoidable cancer” (1995)[/footnote].

In Italia, uno dei massimi esperti in questo campo è l’epidemiologo Franco Berrino, oggi nome riconosciuto in patria e all’estero per le sue ricerche sull’argomento. Personalità particolarmente legata a Milano per la sua attività presso l’Istituto Nazionale dei Tumori, Berrino con grande semplicità spiega come determinate condizioni fisiologiche, alterabili o controllabili anche attraverso ciò che mangiamo quotidianamente, espongano a un maggior rischio di sviluppare formazioni cancerose.

Sono due, in particolare, le condizioni su cui il dottor Berrino insiste: stati infiammatori cronici o prolungati e glicemia alta favorirebbero tanto l’insorgenza quanto la crescita del cancro[footnote]L.M. Coussens, Z. Werb, “Inflammation and cancer” (2003)[/footnote]. L’organismo infatti reagisce alle infiammazioni rilasciando a livello locale e sistemico alcune sostanze (chitochine, ormoni e fattori di crescita) che contribuiscono alla proliferazione cellulare. È proprio la crescita e la moltiplicazione cellulare incontrollata, a fronte di un mancato “suicidio” delle cellule al termine della loro vita, lo spietato nemico, aggressivo ed espansionista, che noi chiamiamo “tumore”. La proliferazione però non è sufficiente allo sviluppo del cancro: l’infiammazione prolungata e cronica finisce per agire sul DNA e alterarlo, “disattivando” i geni che pongono fine alla vita della cellula al momento opportuno. A sua volta, questo scatena una reazione infiammatoria, che nel complesso rende più invasivo il morbo, per una sorta di circolo vizioso.

Anche la sindrome metabolica[footnote]K. Esposito, P. Chiodini, A. Colao, A. Lenzi, D. Giugliano, “Metabolic Syndrome and Risk of Cancer. A systematic review and meta-analysis” (2012)[/footnote] e il diabete di tipo 2[footnote] E. Giovannucci, D.M. Harlan, M.C. Archer, R.M. Bergenstal, S.M. Gapstur, L.A. Habel, M. Pollak, J.G. Regensteiner, D. Yee, “Diabetes and Cancer. A consensus report” (2010)[/footnote] sembrano essere fattori predisponenti. L’obesità stessa, tipicamente associata alla sindrome metabolica, di per sé espone a un rischio più elevato di sviluppo di tumori[footnote]E.E. Calle, C. Rodriguez, K. Walker-Thurmond, M.J. Thun, “Overweight, obesity, and mortality from cancer in a prospectively studied cohort of U.S. adults” (2003). E.J. Gallagher, B.A. Neel, I.M. Antoniou, S. Yakar, D. LeRoith, “The Increased Risk of Cancer in Obesity and Type 2 Diabetes: Potential Mechanisms” (2010)[/footnote]. Già negli anni Venti, grazie agli studi del premio Nobel per la medicina Otto Warburg, venne appurato che le cellule tumorali metabolizzano gli zuccheri in modo diverso rispetto alle cellule sane. Le cellule cancerose sono più “fameliche”, bruciano circa venti volte la quantità di glicogeno di una cellula normale — motivo per cui sembra sensata la conclusione che “affamando” il cancro, questo possa essere meglio combattuto attraverso le terapie, che rimangono, sempre e comunque, imprescindibili e indispensabili.

Okay, quindi cosa mangiamo?

In definitiva, sono quattro i fattori che l’Istituto Nazionale dei Tumori raccomanda di mantenere bassi tanto a scopo preventivo quanto di sussidio alla cura: la glicemia, l’insulina, i fattori di crescita, gli stati infiammatori. A questo scopo, farine raffinate, prodotti da forno e dolciari commerciali, patate, riso brillato — e in generale tutti i prodotti molto lavorati e ricchi di zuccheri semplici o dolcificanti — sono da evitare, per dare priorità ai prodotti integrali, legumi, verdure, semi e frutti oleosi. Bisognerebbe ridurre al minimo il consumo di carne, e in generale il consumo di proteine animali, prediligendo il pesce e le proteine vegetali. Il protratto consumo di alcol è certamente deleterio, anche in quantità modiche. Esiste poi una vasta gamma di alimenti e spezie adiuvanti anti-infiammatori, come la curcuma e lo zenzero, o utili a mantenere sotto controllo la glicemia, come gli spinaci e i legumi.

Gli studi di Berrino e del gruppo di ricercatori che oggi porta avanti il suo lavoro sottolineano la rilevanza tanto dell’aspetto qualitativo quanto dell’aspetto quantitativo: non conta solo cosa mangiamo, ma quanto mangiamo. Studi sugli animali hanno appurato da più di un decennio che una dieta restrittiva riduce il rischio di sviluppare tumori[footnote]S.D. Hursting, J.A. Lavigne, D. Berrigan, S.N. Perkins J.C. Barrett, “Calorie restriction, aging, and cancer prevention: mechanisms of action and applicability to humans” (2003)[/footnote].

Consapevolezza alimentare prima di tutto: il Campus Cascina Rosa

Il cancro è una patologia per vari motivi connessa allo stile di vita occidentale: la sedentarietà, l’iperalimentazione, la dieta iperproteica, gli elevati livelli di stress, il fumo e l’inquinamento sembrano tutti favorire la sua manifestazione. Accanto all’Istituto Nazionale dei Tumori è attivo dal 1978 un centro di ricerca ad hoc per la ricerca del nesso tra alimentazione, stile di vita e cancro e per la messa a punto di percorsi e progetti dedicati alla divulgazione di conoscenze cui possiamo attingere tutti i giorni di fronte ai banconi del supermercato o ai fornelli. Dal 1995, il Campus Cascina Rosa organizza lezioni e corsi di cucina aperti, in cui biologi, medici e cuochi mettono in condivisione e comunione le proprie conoscenze specifiche per accompagnare i partecipanti alla consapevolezza di ciò che si mangia ogni giorno a tavola.

Inoltre, attraverso i progetti MeMeMe (“Sindrome Metabolica Dieta Mediterranea Metformina”) e Diana 5, diretto alle donne operate di carcinoma mammario per ridurre il rischio di recidive attraverso l’adozione di diverse abitudini alimentari, il centro continua a verificare l’efficacia di un simile approccio. I risultati di quest’ultimo studio, il Diana 5, presentati per la prima volta nel 2016, hanno portato a importanti conclusioni: il cambiamento d’alimentazione ha apportato netti benefici fisici alle partecipanti e ridotto i fattori di rischio di recidive al di sotto della media. Le 608 donne inserite nel programma sono state coinvolte in corsi di cucina, pasti comunitari e conferenze, per facilitare la transizione al nuovo regime alimentare.

Il coinvolgimento diretto in attività di orientamento gioca un ruolo di prim’ordine, specie di fronte a ex pazienti che si lasciano alle spalle l’esperienza di un carcinoma. Le lezioni di cucina organizzate regolarmente dal Campus, che di volta in volta affrontano una tipologia di cibo differente, si svolgono in un contesto del tutto informale, in cui i ricercatori interagiscono direttamente con i partecipanti e spiegano, passo passo, perché si è scelto un certo alimento o una certa modalità di cottura, e le proprietà specifiche di ciascun ingrediente, mentre nella cucina a vista si prepara la cena.

Sfogliando le ricette ideate dal gruppo di ricerca possono balzare all’occhio ingredienti esotici o sconosciuti, tratti dalla tradizione orientale e dalla cucina macrobiotica (il miso, l’agar agar, i fagioli azuki, l’alga wakame, per citarne alcuni), abbinamenti insoliti con spezie particolari, procedimenti di cottura o indicazioni che rendono la preparazione di un pasto più lenta o più elaborata rispetto a quanto non si sia abituati.

Uno dei principali limiti della dieta preventiva è proprio l’aspetto temporale: la consapevolezza di non aver tempo per cucinare con cura — partendo dall’ingrediente semplice, senza ricorrere ai prodotti pronti al consumo — e per mangiare con calma è un grande disincentivo per molti dei partecipanti ai corsi, spesso più gravoso dell’idea di rinunciare a certi alimenti. I ritmi di vita, specie quelli milanesi, non consentono di ritagliarsi nemmeno il tempo utile per “nutrirsi”, al più ci consentono di “alimentarci”. Non tutti possono permettersi, se non al prezzo di un certo sforzo, di prepararsi il pane in casa quotidianamente o di tagliare e saltare le verdure fresche la mattina, prima di uscire per andare al lavoro.

Per quanto in fondo la dieta dell’Istituto non sia altro che un’elaborazione di una dieta povera che i nostri nonni conoscevano bene, spesso i prodotti migliori e più sani sono anche quelli che costano di più, così che al tempo si va ad aggiungere anche il limite economico. Uno sguardo più profondo ci rivela come la dieta preventiva sfidi, nel suo piccolo e nella sua intimità, tante storture del sistema capitalistico: la monetizzazione del tempo, le leggi del mercato, la sovrapproduzione, l’allevamento e l’agricoltura intensivi, l’eccessiva competizione, la pressione lavorativa. E così anche l’edificio basso e domestico del campus, immerso in una fitta vegetazione frondosa, oasi anomala in mezzo al cemento, assume quasi il valore di un simbolo di un’alternativa stretta, ma possibile, persino a Milano.

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Questo articolo è apparso per la prima volta sul nostro primo numero di carta, ANTIFOOD.
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