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Sulla Repubblica di oggi, l’autore dell’attentato di Macerata ha l’occasione di dipingersi come una specie di San Francesco redento. Ce n’era bisogno?

A un anno esatto dalla tentata strage di Macerata, sulla Repubblica di oggi c’è un’intervista di Ezio Mauro all’autore del raid, Luca Traini, attualmente in carcere.

Ricordiamo brevemente i fatti: la mattina del 3 febbraio 2018 il 28enne Luca Traini, neofascista con un passato da militante nella Lega Nord — era stato candidato nel 2017 a Corridonia, nelle Marche, e in un video del 2015 lo si può vedere mentre stringe la mano a Salvini con una vistosa croce celtica tatuata sul braccio — gira per le strade di Macerata con la sua macchina e spara con una Glock calibro 9 ai passanti di colore, ferendone gravemente 6. La polizia lo ferma mentre, avvolto in un tricolore, fa il saluto romano sul monumento ai caduti della città.

Nelle settimane successive, mentre tutto l’arco politico, in piena campagna elettorale, si ostina a negare l’evidente matrice razzista e neofascista dell’attentato, Traini rilascia una serie di dichiarazioni in cui nega di essere pentito — facendo eccezione soltanto per Jennifer Otiotio, l’unica donna colpita — e ribadisce di aver sparato per “vendicare” la morte di Pamela Mastropietro, per cui è indagato il nigeriano Innocent Oshegale.

Qualche mese dopo la musica è cambiata e — siamo sicuri che non c’entra nessuna strategia processuale per farsi ridurre la pena, assolutamente — Traini ha cominciato a descriversi “cambiato” e “pentito.”

Ed è così che lo ritroviamo sulle pagine di Repubblica questa mattina, in un’intervista tutta condotta sul registro del patetico. Già a partire dal virgolettato che il quotidiano ha scelto di usare nel titolo, accogliendo senza nessun sospetto come sincero il pentimento di Traini — che, ricordiamo, fa professione di anti-razzismo con il simbolo di Terza Posizione tatuato in testa: Traini pentito un anno dopo. “Dentro di me non c’è più odio, voglio incontrare le mie vittime.”

Ora, la scelta di intervistare un neofascista condannato per tentata strage aggravata dall’odio razziale, offrendogli un megafono e una visibilità enorme, è deontologicamente complicata. L’interesse giornalistico per l’approfondimento su un evento drammatico, che a detta di molti ha segnato l’inizio della spirale razzista — spesso violenta — in cui l’Italia è andata a cacciarsi, confligge con il rischio di dare ulteriore sfogo e diffusione a idee pericolose, o peggio di riabilitare un terrorista fidandosi semplicemente di quello che dice. L’intervista di Ezio Mauro riesce a fare entrambe le cose.

Che il pentimento di Traini sia perlomeno questionabile appare già dalla prima risposta, in cui il neofascista usa una disgustosa metafora della “caccia” per descrivere il proprio gesto (più avanti userà quella del “videogioco”). Il che la dice lunga sulla sua concezione dell’essere umano:

“Il lupo resta un simbolo, la caccia è finita quel giorno. […] Ma se sei lupo, lo rimani per sempre.”

Allo stesso tempo, però, Traini cerca subito di portare il lettore a empatizzare con lui, descrivendosi “svuotato, esaurito” dopo l’attentato. Tutta l’intervista è piena di introspezioni emozionali in cui, poverino, cerca di spiegare ciò che ha provato in quei terribili momenti, mentre cercava di ammazzare delle persone solo per il colore della loro pelle: “Un miscuglio di sensazioni, stati d’animo, emozioni. […] Il perché, oggi è difficile da rintracciare, in mezzo a quei sentimenti che mi dominavano. È stata come un’esplosione dentro di me.” E ancora: “Non avevo altri pensieri. Anzi, non percepivo nulla di quel che succedeva intorno a me, fuori, ero isolato nella mia automobile.”

La domanda che sorge spontanea è: ma perché dobbiamo stare a sentire tutto questo? Fosse anche sincero il pentimento di Traini — e speriamo che lo sia — ogni parola spesa in questi termini serve soltanto come apologia e de-responsabilizzazione di un gesto dotato di una precisa connotazione politica. Affermando di essere stato in preda a un “miscuglio di emozioni e sentimenti” Traini cerca di distogliere l’attenzione da questo piccolo dettaglio. Come a dire: “Ero fuori di me, non è colpa mia.”

Ezio Mauro però non fa una piega, si guarda bene dal provare a incalzare Traini su questo versante, si limita a domande blande e di dubbia utilità, come: “Quanto ha pesato sulla sua azione l’ideologia di estrema destra?” Grazie, abbiamo proprio bisogno di sentircelo dire da Traini per capirlo.

Di fatto, le domande potrebbero anche non esserci: sono solo agganci offerti a Traini per dire la sua. Il che è pericoloso, non solo perché gli si offre il fianco per dipingersi come una specie di ritrovato San Francesco, ma anche perché si scivola facilmente nella sua stessa cornice di pensiero, senza metterla in discussione. Così, alla domanda “Non crede che ci sia troppo odio razziale oggi in Italia?” (grazie Ezio, anche questo sentivamo proprio il bisogno di chiederlo a Traini), risponde: “L’odio non nasce per caso, è frutto anche di politiche errate a danno sia degli italiani che degli immigrati.”

Lo stesso Ezio Mauro, già dalle prime domande, accoglie senza problemi il frame della vendetta, ricordando la morte di Pamela Mastropietro, come se potesse offrire una scusante alla tentata strage. E Traini coglie la palla al balzo: “Mi sono sentito spinto, trascinato da una scelta che era come un dovere.” Il problema è che nel momento stesso in cui si accetta che Traini abbia potuto agire per “vendetta” o per “farsi giustizia da solo,” come in molti dicevano un anno fa, si accetta che ci sia un collegamento tra gli assassini di Mastropietro e le vittime dell’attentato. E questo collegamento qual è? Il colore della pelle.

Ma tranquilli, l’odio razziale non c’entra niente, assicura Traini: “Se fosse stato un bianco a uccidere così Pamela, avrei cercato di vendicarmi su di lui nello stesso modo.” (Qui è dove partono le risate registrate da telefilm anni ’90).

Le goffe professioni di anti-razzismo che il terrorista dissemina qua e là sono autenticamente divertenti: oggi non li chiama più “negri,” li chiama “neri,” e non ha più problemi a parlare con loro, pensate un po’! Che progressi.

Riassunto:

  • L’odio non nasce per caso, quindi in fondo se ho agito così ero giustificato da non meglio precisate “politiche ai danni di italiani e stranieri”;
  • Ho agito per vendetta;
  • Ero fuori di me;
  • Volevo lasciare un segno;
  • Però sono pentito eh, non sono più razzista e sono disposto addirittura a incontrare le mie vittime.

Qualcosa di interessante da chiedere a Traini poteva esserci: per esempio, gli si poteva fare qualche domanda in più sul suo percorso di radicalizzazione, senza accontentarsi di sentirsi dire che per lui fare il saluto romano era un gesto abituale. Gli si poteva chiedere dei suoi contatti, della sua rete di appoggi, dei suoi riferimenti politici. Insomma, si poteva cercare di capire qualcosa di più sulla genesi di un terrorista neofascista, che non sulle sue patetiche auto-giustificazioni.

Ma forse, se proprio si voleva dedicare uno speciale all’anniversario dell’attentato, si potevano intervistare le vittime, e dar voce a loro. È chiedere troppo?