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“L’approccio che cerco di avere quando suono e quando faccio musica in generale è quello di essere il più dentro possibile a quello che sto facendo.”

Adele Nigro è il giovanissimo cuore pulsante degli Any Other, al loro secondo disco dopo Silently. Quietly. Goin’ Away. del 2015. Lo scorso 16 novembre Adele ha portato sul palco del Serraglio di Milano la sua band e tanta, tantissima sensibilità per presentare al pubblico Two, Geography, un disco che — scritto, arrangiato e prodotto dalla polistrumentista veronese — solca i mari burrascosi di una relazione malsana.

L’abbiamo incontrata prima del soundcheck per avventurarci insieme a lei nella profondità emotiva della sua espressione musicale.

Two, Geography è un disco molto intimo e personale: come ti senti ad esporre così le tue emozioni? Immagino che non sia sempre facile, soprattutto nei live.

Ammetto che no, non è sempre facilissimo, ma comunque ho sempre scritto testi autobiografici quindi ero già abituata a parlare dei fatti miei, e non è stata una cosa nuova. È nuovo parlare di questo tipo di fatti miei, perché col disco vecchio non lo avevo fatto e ammetto che spesso è più difficile di quanto mi aspettassi. L’approccio che cerco di avere quando suono, quando faccio musica in generale e quindi anche quando suono dal vivo è quello di essere il più dentro possibile a quello che sto facendo, di non renderlo un automatismo, di non renderlo finto – per quanto chiaramente si tratti di un concerto e quindi qualcosa che è stato pensato, provato e strutturato in un certo modo. Mi ci immergo molto anche su un piano emotivo e a volte lo sento.

Il non avere una formazione accademica come ti ha aiutata (ed eventualmente limitata) nella creazione di questa espressione emotivo-musicale e nella produzione del disco, interamente tua?

Ci sono sia dei pregi che dei difetti nell’essere un’autodidatta. I pregi sono che non avendoti mostrato nessuno un percorso lineare attraverso cui passare, chiaramente le vie che trovi sono vie personali, non c’è una strada precostruita, devi trovartela tu e questo ti aiuta a sviluppare un tuo percorso. Io francamente penso di averlo trovato, penso di essere molto personale in quello che faccio. Ovviamente ci sono anche dei limiti, soprattutto nell’interazione con altri musicisti, in particolar modo con quelli che invece hanno una preparazione accademica, come i turnisti che sono abituati a leggere la musica. Io ho imparato a leggere la musica solo dopo aver registrato le parti di archi, prima non sapevo scriverla e nemmeno leggerla. Le cose più teoriche servono a interagire con gli altri e rendono le cose più facili, quindi ho avvertito di avere dei limiti, ma non credo comunque che sia un passaggio obbligato. Certo facilita le cose — se vuoi una cosa sai già come arrivarci senza dover trovare queste mille strade, il che a volte è un po’ faticoso, ma mi è capitato spesso di avere a che fare con gente che non sa leggere la musica.

Si è parlato molto di “Walkthrough”, per le sonorità stranianti rispetto a Silently. Quietly. Going Away. e per la forza delle parole che canti. Penso che anche il video sia molto forte, nella sua semplicità: com’è nato?

In generale il disco è molto caldo dal punto di vista delle tematiche toccate e dal punto di vista delle liriche, quindi in un modo quasi di compensazione tutto ciò che riguarda la parte grafica, estetica e visuale del disco, l’artwork, la comunicazione, le foto e di conseguenza anche il video, volevo renderlo algido e asettico. È stata una cosa che ho realizzato a posteriori, immediatamente non ci ho ragionato, è stata una scelta d’istinto, poi mi sono accorta della totale contrapposizione. Per Walkthrough è stata la stessa cosa: nel testo si arriva a parlare anche di insensibilità nel senso proprio del termine, del non sentire nulla, perciò il video si sposa con questo sentimento. Non è assolutamente emotivo, è freddo, anche se io sono una persona altamente emotiva, per quanto cerchi di non esserlo.

La semplicità fa parte anche della tua immagine — qualcuno potrebbe addirittura pensarti trasandata. Penso all’immagine stereotipata della donna nel panorama musicale e ti chiedo: ti è mai stato in qualche modo rimproverato di non adeguarti?

In realtà sì, se non direttamente rimproverata comunque mi sono state fatte delle osservazioni, a partire dalla copertina del disco, in cui non sono truccata, ero vestita come ero vestita quel giorno, per quanto io e Mattia Savelli, che ha fatto le foto, avessimo ragionato su alcuni dettagli. Non mi sento di dire di essere né sciatta né trasandata, sono una persona normale che tutte le mattine si alza, fa la colazione, la doccia e si veste. Credo semplicemente che le persone non siano abituate a vedere una ragazza anche convenzionalmente attraente, bianca, bionda, con gli occhi blu, una corporatura media, standard, in questo modo. Non sono abituati a vedere persone che non siano maschi in questo modo, quindi vedono come mi presento e dicono “è trasandata, non si cura”, quando invece in realtà ho semplicemente un modo diverso di curarmi rispetto a quello che si aspetterebbero loro. Penso che negare un certo tipo di estetica sia un modo di lanciare un messaggio estetico, quindi non mi sento di dire che non mi interessa. Allo stesso tempo mi sento molto fluida in quello che riguarda l’estetica: stasera mi metto un vestito e mi trucco, settimana scorsa ho suonato e non l’ho fatto, mi piace fare quello che voglio sotto questo punto di vista.

Il fatto stesso di suonare il sax, strumento non tradizionale per una donna, è in qualche modo rivoluzionario.

Non voglio negare il fatto che al momento in questa scena musicale non esistono delle polistrumentiste femmine di vent’anni. Esistono in generale ma non in questo circuito, che magari anche involontariamente è ancora dominato da un certo sessismo, vengono date meno opportunità alle persone che non sono maschi. Se ci penso mi vengono in mente un sacco di ragazzi cantautori che suonano la chitarra, mi viene in mente qualcuno che suona il sax. Ragazze che suonano il sax le conosco ma tutte al di fuori di questa cerchia ed è un peccato perché comunque chi ci perde siamo noi.

Hai ricevuto porte in faccia o poco credito in quanto donna?

Più che delle porte in faccia – e lo dico serenamente, adesso non mi importa nemmeno più – sono sicura che avrei ricevuto molto più credito se fossi un uomo, nonostante ne stia ricevendo. Non sono scontenta di come stanno andando le cose ma sarei disonesta nei confronti miei e delle altre ragazze se dicessi che ho ricevuto lo stesso trattamento. C’è anche questa cosa della “pornografia giornalistica” per cui anche con un intento positivo sottolineano sempre che sei una donna, che sei speciale, ti chiedono che episodi di sessismo hai dovuto subire: sembra quasi intrattenimento sulla discriminazione. Ci sono dei dischi a cui ho collaborato per i quali ho ricevuto il credito dovuto solo in parte, tanto che è diventata quasi una gag per le persone con cui lavoro. Spessissimo è stato dato credito ad altri uomini che nemmeno hanno partecipato alla produzione di certi dischi: settimana scorsa mi è stata mandata una recensione di Two, Geography tutta positiva che però iniziava affermandone la produzione di Colapesce, il che non è scritto da nessuna parte. Sono cose che fanno pensare. Ormai prima di lavorare a un disco voglio sapere se sarò accreditata nel modo giusto.

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Viviamo in un mondo in cui fortunatamente il tema della salute mentale ha sempre più risonanza. Sempre più artisti ne parlano e si battono contro lo stigma che l’accompagna: anche tu lo affronti in Two, Geography, da un punto di vista personale. Vorresti essere considerata una sorta di portavoce?

Non mi sono mai posta la domanda, non ho mai pensato di essere una portavoce del dibattito sui disturbi mentali. Sicuramente è una cosa che è molto rilevante nella mia vita, sia in prima persona sia rispetto ad altre persone che mi circondano e penso che sia molto giusto parlarne e far vedere che, anche se suoni, se hai una vita che da fuori magari sembra bella e fortunata, le cose possono essere diverse nel privato. È importante dire che non importa chi sei, che vita fai, comunque quello che senti è valido. A me personalmente aiuta molto sentire questa cosa da altri musicisti e lo vivo proprio come un dovere. È chiaro che se una persona non ha voglia di parlare dei propri disturbi non è obbligata a farlo, però a me non pesa farlo, lo devo fare. Sono tantissime le persone che ne soffrono, lo stigma porta al silenzio e il silenzio porta ad un ulteriore stigma, all’incomprensione. Diventa un circolo vizioso e allora chi se la sente deve romperlo, per quanto possibile, anche per renderlo una cosa normale nell’opinione comune.

Se potessi scegliere con chi fare un tour come quello che hai fatto con Colapesce, che ti ha dato molto spazio sul palco, con chi lo faresti?

È una domanda difficile, in parte perché sono una control freak e in parte perché per quanto cheesy possa sembrare io suono già con le persone migliori con cui potrei suonare. Già avere Giugiu (Marco Giudici, in arte Halfalib, ndr), che suona con me da quando esiste Any Other, mi basta, non mi serve altro. Poi il bassista che suona con noi, Giacomo Di Paolo, è veramente bravo e ha una sensibilità incredibile. Abbiamo ben due batteristi, Alessandro Cau e Clara Romita, anche lei polistrumentista… Ho tutto quello che mi serve! Io mi affeziono e di base non riesco a suonare con qualcuno se prima non ci ho instaurato un rapporto d’amicizia. Io e Lorenzo (Urciullo, ovvero Colapesce, ndr) ci conoscevamo ma non eravamo amici come lo siamo ora: aprire la porta a qualcuno che non conosci implica anche il fatto di non conoscerlo fino a quel momento e non so se sono capace di farlo per quanto riguarda Any Other. Quando si tratta di fare cose al di fuori da questo progetto sono molto malleabile, i dischi a cui ho collaborato in questi anni sono molto diversi tra loro, mi piace mettermi nelle mani di una persona e fare qualcosa che non c’entra nulla con me, invece faccio fatica ad essere dall’altra parte. Any Other è uno spazio sicuro all’interno del quale faccio entrare poche persone selezionate. Forse una persona con cui potrei fare una cosa del genere è Laura Agnusdei, con cui ho dei progetti per il futuro.


Tutte le foto di Mattia Savelli.

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