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in copertina “un momento di relax nella parrocchia di Vicofaro, il cui parroco don Massimo Biancalani accoglie migranti,”  tutte le foto dal blog di Martina Cera

“A chi è indifferente ai tumulti politici in corso, ma non è razzista, direi che la Storia prima o poi presenta il conto a tutti.”

Martina Cera studia Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano. Mentre stendeva la sua tesi di laurea triennale — sul rapporto tra crescita economica e migrazioni — sono avvenuti i fatti di Macerata, prima, e l’omicido di Soumaila Sacko, poi. Il clima tossico e razzista che sembra inquinare sempre più il paese ha spinto Martina ad intraprendere un viaggio dal Nord al Sud dell’Italia per raccontare le migliori esperienze di accoglienza, in mezzo a un’intolleranza sempre più diffusa. Nel suo viaggio — tra le altre cose — ha incontrato la scrittrice Violetta Bellocchio, ha parlato con don Massimo Biancalani e ha ascoltato Drame Madiheri, uno dei testimoni dell’omicidio di Soumaila Sacko. Abbiamo deciso di farci raccontare il suo viaggio e come si può fare un attivismo efficace, oggi.

Sul tuo blog, Un’altra rotta, hai scritto che lo scopo del tuo viaggio era di “visitare i luoghi dell’accoglienza e dell’integrazione” per raccontarli. Com’è andata? Che clima si respirava in Italia quest’estate?

Credo che sia andata molto bene, considerato che siamo partite senza nessun tipo di finanziamento e che il periodo non fosse dei più felici — erano i primi di agosto. Per quanto riguarda il clima, era chiaro che attivisti e operatori fossero preoccupati, con il Governo che aveva già iniziato ormai da un po’ a mostrare i muscoli e il generale clima di intolleranza crescente verso le persone di cui si occupano queste associazioni.

Il momento peggiore è stato quando, il giorno dopo aver lasciato Vicofaro, abbiamo letto dell’aggressione ad uno degli ospiti della comunità di Don Biancalani: Buba Ceesay ci aveva fatto fare il giro del centro, in una pausa avevamo giocato a calcetto insieme, e solo poche ore dopo è stato inseguito da due giovani italiani che gli hanno sparato al grido di “negro di merda”. Per fortuna è rimasto illeso, ma il fatto che la storia di questo viaggio si sia incrociata con un’aggressione razzista la dice lunga.

Per quanto riguarda invece i feedback è capitato che qualcuno mi scrivesse su Instagram per insultarmi, consigliandomi magari di “andare a fare un giro nelle periferie:” beh, io vengo da un quartiere di periferia, puoi immaginare il silenzio dopo che capivano che con me certi commenti non funzionano. Ovviamente ci sono stati anche tantissimi riscontri positivi, di quelli sono molto felice, perché spesso hanno aperto anche a discussioni più approfondite sul tema.

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Operatrici di Support Convoy, ONG di Dresda che ha portato docce mobili e acqua potabile nel campo della Baobab Experience, Roma, 2018, foto cortesia Martina Cera

L’idea del viaggio ti è sorta dal paragone tra la partecipazione alla manifestazione antirazzista in seguito al caso Masslo del 1989 e quella in seguito al caso Sacko. In poco meno di trent’anni questo genere di manifestazioni sono dieci volte meno partecipate. Cos’è cambiato secondo te?

Forse, per cominciare, c’è meno fiducia sui cambiamenti che può portare una piazza piena di gente. Nel 1990 il Governo Andreotti si ritrovò a scrivere la “Legge Martelli” proprio perché oltre 200.000 persone si erano ritrovate a Roma per chiedere giustizia per Jerry Masslo, una cosa che oggi sembra inconcepibile. C’è poi stato il G8 di Genova, una specie di spartiacque sia per chi ha vissuto sulla propria pelle quanto accaduto nel 2001 sia per chi ha assistito alle violenze e agli scontri attraverso i media. Senza contare che il clima, rispetto ad allora, è molto cambiato. È cambiato anche il sentire comune rispetto al fenomeno migratorio: se confrontiamo le statistiche, completamente sfasate, sulla percezione che hanno gli italiani del numero di migranti in Italia è chiaro che le persone sono meno disposte a scendere in piazza per difendere i diritti di queste persone.

Raccontaci del tuo viaggio. Quali luoghi hai visitato?

La prima tappa è stata la sede fiorentina di MEDU – Medici per i diritti umani — che attraverso il progetto “Un camper per i diritti” si occupa di fornire cure sanitarie di base ai migranti che vivono in insediamenti informali. Poi siamo andate a Vicofaro, in provincia di Pistoia, da don Biancalani: eravamo molto incuriosite dal suo lavoro e dalla polemica sorta attorno a questa sua idea di chiesa aperta — anche fuori dal modello tradizionale di accoglienza a cui comunque fa riferimento la Caritas.

Dopo la Toscana siamo scese a Roma, alla Baobab Experience, l’associazione che gestisce il campo vicino alla stazione Tiburtina, e ancora a MEDU, che lì ha un centro molto importante per la cura delle malattie psichiatriche. Siamo andate a cena da Gustamundo, un ristorante dove cucinano chef rifugiati che a fine serata raccontano la loro esperienza come migranti. A questo punto Sara, la ragazza che ha viaggiato con me e che si è occupata di fare le fotografie, è tornata a Genova, mentre io ho proseguito da sola.

A Villa San Giovanni e Reggio sono stata allo SPRAR “Approdi mediterranei” e in un ambulatorio medico popolare gestito dai gesuiti, che fa parte della rete “Reggio Non Tace” contro l’Ndrangheta. Ho anche parlato con alcuni degli abitanti della tendopoli di San Ferdinando, nella piana di Gioia Tauro, dello sfruttamento dei lavoratori impiegati nella raccolta del pomodoro — e naturalmente dei fatti di Rosarno del 2010 e dell’omicidio di Soumaila Sacko. Da lì ho cominciato a risalire: per Bari, dove con l’associazione di promozione interculturale Saro-Wiwa ho visitato altri centri di accoglienza e una scuola per stranieri.

L’ultima tappa è stata Ascoli, dove ha sede On The Road Onlus, una delle associazioni storiche che in Italia si occupano di tratta, con dei progetti molto ben strutturati. Il viaggio però non è ancora finito: continuerò questo inverno con altre tappe nel nord Italia, per esempio in questi giorni sarò a Saluzzo per parlare con gli stagionali che arrivano in Piemonte per la raccolta della frutta.

Torniamo a Don Massimo Biancalani. Ti ha raccontato che dall’inizio del suo progetto di accoglienza ad oggi le iscrizioni al catechismo nella sua parrocchia sono crollate del 50%. Qual è secondo te il rapporto tra, chiamandola genericamente, fede o carità cristiana e il fenomeno migratorio?

La Chiesa ha dei numeri molto grandi nel suo impegno per i migranti: si parla di 25mila persone accolte in 136 diocesi e di circa 2000 profughi salvati dai corridoi umanitari. I dati che cito sono di un monitoraggio della CEI che risale alla primavera del 2017, perché quello del 2018 è ancora in pubblicazione. A questo bisogna aggiungere i numeri, che sono molto importanti, della Federazione delle Chiese evangeliche e della Chiesa valdese.

In occasione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 2015 Papa Francesco lanciò un messaggio invitando la Chiesa ad essere “senza frontiere e Madre di tutti”. Il richiamo era alla celebre frase del Vangelo di Matteo “Ero straniero e mi avete accolto”, ripresa da tante persone dopo i fatti della nave Aquarius. Peraltro è la frase che dà il nome alla campagna di raccolta firme per l’abolizione della Bossi-Fini. La Chiesa ha quindi una posizione molto chiara che però si scontra, nella pratica, con le reazioni dei parrocchiani. E questo è proprio il caso di don Biancalani. Tutto dipende dal contesto: a volte si trovano persone pronte ad accogliere e ad aiutare nell’integrazione, altre volte si fa più fatica, altre ancora c’è una chiusura totale. Non bisogna dimenticare anche il rapporto fra certe frange estremiste cattoliche, che spesso fanno riferimento all’ideologia fascista, e alcuni prelati che danno loro spazio all’interno della Chiesa. Questo rapporto esiste e non va sottovalutato: quando i militanti di Forza Nuova si sono presentati alla messa di don Biancalani lo hanno fatto per “monitorare la dottrina del parroco”. Il problema erano proprio le “radici cristiane” messe a repentaglio dal “prete sovversivo”.

In Italia c’è stata una vera e propria escalation di aggressioni di matrice razzista. Qual è il motivo secondo te?

Sicuramente c’è un’aura di impunità, attorno a certi fatti, che prima non c’era. Mancando la ferma condanna delle istituzioni, che spesso giustificano o ne minimizzano la matrice razzista — quando non la negano direttamente — alcune persone si sentono autorizzate a compiere atti di violenza. C’è stata poi una legittimazione mediatica di formazioni neofasciste, con i leader di partiti che si definiscono appartenenti a quell’area politica che sono andati a parlare in televisione durante la campagna elettorale.

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Baobab sotto la pioggia, Roma, Agosto 2018, foto cortesia Martina Cera

Macerata rappresenta un momento di non ritorno in questa serie di aggressioni?

Credo di sì. A Macerata è stata evidente la mancanza di una contro-narrazione all’idea politica dominante. C’era addirittura chi giustificava l’aggressore, parlando di quello che aveva fatto come di una ovvia reazione all’omicidio di Pamela Mastropietro. La relazione tra i due fatti è stata raccontata ossessivamente per giorni, ipotizzando anche un collegamento inesistente tra Traini e la ragazza assassinata giorni prima — collegamento inizialmente lanciato dalla Lega. Nelle settantadue ore successive soltanto un rappresentante di Potere al Popolo è andato in ospedale dalle vittime, mentre il resto della sinistra invitava ad “abbassare i toni”. Il problema era che nel frattempo la destra i toni li alzava: Forza Nuova ha offerto sostegno legale a Traini e Matteo Salvini è stato ospitato in prima serata in televisione, dove quasi nessuno gli ha fatto notare che Traini era iscritto proprio al suo partito e che il gestore della palestra dove si andava ad allenare avesse dichiarato che era ossessionato dall’invasione dei migranti e che negli ultimi tempi continuava a parlare del leader della Lega.

Non bisogna dimenticare che Macerata è stato anche il punto di non ritorno per chi vive letteralmente sulla propria pelle le conseguenze di questo discorso politico. Come ti sentiresti se domani, in un Paese X, dopo mesi di propaganda, una persona si mettesse a sparare agli europei e tu abitassi proprio in quel Paese?

Come si può cambiare la percezione, sproporzionatissima, del numero di migranti in Italia?

Facendo informazione, chiara ed accessibile. Contrastando la narrazione di cui abbiamo parlato, contrapponendosi alla retorica dell’invasione.

E come si può combattere la retorica per cui la migrazione è di per sé un fenomeno negativo?

Non credo che esista una risposta “facile” a questa domanda, come per quella di prima il problema è che un certo modo di pensare si sta radicando sempre di più nelle menti degli europei. Bisogna fare sempre un lavoro culturale. La gente non ci crede? Tu continua a dirlo. Fondamentale è parlarne con i più giovani, creare nelle scuole occasioni di incontro su questo tema. E, ovviamente, partecipare agli eventi e alle manifestazioni antirazziste.

L’Italia è sempre stato un paese silentemente razzista, pensiamo a come non è mai stata elaborata la storia coloniale italiana, o lo è diventato di più negli ultimi anni?

Io credo che negli ultimi anni sia caduto una sorta di tabù rispetto al razzismo. Fino a qualche anno fa ci si poteva dichiarare apertamente razzisti solo in certi ambienti, un po’ come accadeva rispetto all’essere fascisti. Si è allargato il perimetro del socialmente accettabile e le istituzioni hanno fatto tantissimo in questo senso. Sono d’accordo sul fatto che la mancata elaborazione della storia coloniale italiana abbia contribuito: se “Faccetta Nera” fa parte dell’immaginario popolare e viene percepita come una canzonetta divertente, e non come qualcosa che inneggia alla schiavitù sessuale delle donne etiopi, abbiamo un problema.

Raccontaci il tuo incontro Drame Madiheri, uno dei testimoni dell’omicidio di Soumaila Sacko.

Ho incontrato Drame in Calabria. Non si trattava di un incontro programmato, come non era inizialmente prevista la tappa a Reggio. Mi ha raccontato dell’omicidio di Soumaila Sacko come di un vero e proprio episodio di “caccia al nero”, con l’aggressore che li aspettava armato di fucile, gli spari, la fuga nel bosco. Credo che abbia ripetuto questa storia un milione di volte, lucidamente come l’ha raccontata ai carabinieri che hanno trovato il cadavere di Sacko. Per me è stato un incontro speciale: Drame è maliano, parla bene l’italiano, ma ogni tanto si aiutava con il francese e con il dialetto bambara di cui anche io so qualche parola, perché sono stata in Burkina Faso tre anni fa. Abbiamo parlato anche di Bamako, delle iniziative di Francia e Italia nel Sahel, di Ouagadogou, della dittatura di Blaise Compaoré e del colpo di Stato del 19 settembre 2015. Lui era lontano, mentre io ero lì, ed è stato emozionante confrontarsi.

In viaggio hai incontrato Violetta Bellocchio, che insiste molto sul fatto che non è il momento di isolarsi dal mondo e chiudersi in cameretta. Tu hai scritto che non volevi essere tra “quelli che preferiscono rifugiarsi dietro la tastiera.” Cosa diresti a chi non è razzista, ma al contempo è indifferente ai tumulti politici in corso? Come si può agire per invertire la deriva razzista di cui è preda l’Italia?

Violetta Bellocchio è proprio una scrittrice che ti tira fuori dalla cameretta, non solo grazie ai suoi libri, ma anche per il modo in cui riesce a mettere in contatto persone apparentemente molto lontane e a mostrare loro quanto siano vicine le loro battaglie. La tastiera del mio pc, invece, è molto rassicurante. Credo che l’unico modo per invertire la deriva razzista di cui è preda l’Italia sia uscire dalla propria comfort zone, alzare la testa quando si assiste ad episodi di razzismo, dare il proprio contributo — ciascuno con i propri talenti — per cambiare la rotta, partecipare agli eventi e alle manifestazioni di protesta contro quello che sta succedendo. Questo si può fare in un solo modo: essendo lì fisicamente. Non è più il tempo, e forse non lo è mai stato, di contarci online. Bisogna usare parole forti, perché gli altri non hanno paura di usarle.

A chi è indifferente ai tumulti politici in corso, ma non è razzista, direi che la Storia prima o poi presenta il conto a tutti. Magari non me ne importa niente del razzismo dilagante, oppure vado alla scuola per stranieri ad insegnare l’italiano, però allo stesso tempo poi descrivo gli operai che in fabbrica votano Lega come di una massa di idioti. O ancora, sono femminista, ma non mi interesso ai diritti LGBTQ+. Le battaglie devono essere trasversali anche se l’attivismo è una faticaccia ed è difficile tenersi aggiornati su tutto. Altrimenti il giorno in cui non potrò accedere ad un diritto che fino a qualche anno fa si dava per acquisito perché la legge ha reso estremamente difficile farlo tutti saranno troppo concentrati su loro stessi per chiedersi come siamo arrivati fino a quel punto.


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