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tutte le foto dell’autore (scattate a a Bihac, Bosnia, lungo la rotta balcanica)

“I’m going to the game,” ci dice Ali prima di partire, da Šid, per cercare di raggiungere l’Europa, ogni giorno più lontana.

“Devo sporgermi al di là di questo confine se voglio saper accogliere più profondamente”: queste le parole che per un lungo periodo sono state il sottofondo della mia mente. Ero inserito nel sistema d’accoglienza trentina da ormai due anni, ricoprendo il ruolo di “operatore,” quando si è resa evidente la mia incapacità di accogliere persone che si presentavano nel mio ufficio ogni giorno, con la speranza di costruire insieme un percorso di inserimento nel loro nuovo contesto sociale.

Da mesi mi sentivo impreparato. Avevo la convinzione, che rimane tutt’ora, che non fossi in grado di preparare una degna accoglienza per il mio ospite, in quanto non avevo gli strumenti adatti per farlo. Ho deciso quindi di allacciarmi le scarpe per fare alcuni passi verso le migrazioni del nostro tempo, per dare più profondità alle mie relazioni con “lo straniero,” convinto che così facendo sarei riuscito ad accogliere meglio, e che il mio percorso a ritroso lungo la lunga rotta migrante avrebbe contribuito a stimolare lo stesso bisogno e interesse nelle persone alle quali avrei raccontato il mondo “al di là della frontiera.”

Šid

p1210798Sono partito verso est, iniziando il mio cammino in Serbia, più precisamente a Šid, località a pochi chilometri dal confine Serbo-Croato. Mi sono fermato per alcune settimane con “No Name Kitchen,” organizzazione spagnola nata nel marzo del 2017 come risposta al grande flusso di migranti che da Belgrado, la capitale del paese, si sono spostati verso nord, pochi passi più vicino all’Europa. Era l’inizio di marzo, e appena arrivato mi hanno sconvolto  le condizioni disumane nelle quali un centinaio di persone si ritrovavano a vivere.

In Serbia esistono attualmente 18 centri d’accoglienza che però, data la loro marginalità rispetto ai centri urbani, la scarsa presenza al loro interno di attività di inserimento socio-lavorativo e la loro distanza dalle frontiere, vengono abbandonati per la sola e importantissima ragione di potersi avvicinare all’Europa.

La situazione che ho incontrato, però, mi ha sbattuto in faccia tutta la crudeltà del mondo frammentato e diviso secondo la logica dei confini nazionali.

Le persone a Šid sono bloccate, contro ogni loro volontà, chi da alcuni mesi e chi invece da quasi due anni. Sono ferme in uno “squat,” una ex fabbrica abbandonata che è stata occupata nei primi mesi del 2017 da persone in transito lungo la rotta balcanica. I migranti che si fermano in questo stabilimento sono per la maggior parte uomini adulti, i bambini non avrebbero le forze per sopravvivere in condizioni di così profondo degrado. La struttura occupata è fatiscente, priva di finestre, servizi igienici e letti, ed è completamente abbandonata dalle istituzioni che di tanto in tanto fanno la loro comparsa in divisa con l’obiettivo di spostare le persone presenti nei campi ufficiali. “Qui c’è ancora speranza,” mi dice Faesal raccontandomi che la noia dei centri d’accoglienza era insostenibile ed ha deciso di spostarsi lungo il confine Croato perché lì, seppur fioca, rimane accesa una luce di speranza.

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No Name Kitchen è l’unica organizzazione quotidianamente presente in quel perimetro abbandonato e si avvale di volontari che portano avanti attività di distribuzione pasti, coperte, e vestiti. È presente anche Medici Senza Frontiere, che provvede all’assistenza medica e al servizio docce due giorni a settimana in coordinamento con No Name Kitchen. Per No Name Kitchen avere nel proprio organico medici ed infermieri è di fondamentale importanza in un contesto così esposto a pericoli che mettono a serio rischio le condizioni psico-fisiche dei migranti.

 

“La vita a Šid è difficile” “Sono solamente un rifugiato!” “Sono triste”

“Puoi portarmi in Italia con te? Quando rientri?” “Siamo diventati degli animali!”

“Insallah” “Ciao fratello, a domani” “Apriranno mai le frontiere secondo te?” “La notte non dormo” “Guarda, sono come uno dei tanti cani randagi di questo paese” “E quella là”, sguardo rivolto oltre il confine, “sarebbe l’Europa dei dritti?”

“Perché ci fanno tutto questo?” “Voglio andare in Germania!” “Voi italiani siete persone accoglienti”

“Vivo affinché mio figlio possa avere un futuro migliore”

Questi sono alcuni dei pensieri, tra rabbia e sottile speranza, che occupano le menti delle tante persone in viaggio. Li ascolto e sento che la mia bocca non può pronunciare alcuna parola definitiva, vorrei poter dire ad Amir, Faesal, Ahmed, Jamila, Raky, Omid, Kiko, Maria che le cose andranno bene, che l’Europa la raggiungeranno trovando così un po’ di tranquillità. Mi sento però stretto in una morsa, bloccato tra “bugie bianche” e “crude verità” e rimango solamente in ascolto, attendendo con lo spirito che qualcuno intervenga per dar pace a tutte quelle sofferenze. Attendo che l’Europa invii segnali d’apertura, attendo che le loro condizione di vita migliorino, attendo che i diritti inalienabili dell’uomo incisi nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo adottata dalle Nazioni Unite nel 1948 vengano garantiti anche al di qua della frontiera, a pochi passi fuori dall’Europa.

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Ci si ritrova ad aspettare attori più forti, perché di fronte ai molti dubbi e alle mille paure che impregnano l’aria di Šid, ogni tanto ci si blocca sentendosi attori troppo deboli per poter cambiare le cose. Le loro frustrazioni inevitabilmente diventano le tue, quando capisci che di fronte a te non si trovano altro che persone “di un altro colore, ma con il tuo stesso identico umore.” Perché si, l’umore non può che annerire quando entri in contatto con tutta questa sofferenza, tutta questa ingiustificata violenza e tutta questa assordante assenza, di diritti, di istituzioni, di condizioni di vita dignitosa e di umanità.

The game (il gioco)

Il tentativo di oltrepassare le frontiere si è linguisticamente, oltre che politicamente e culturalmente, ridotto a semplice “gioco.”

“I’m going to the game,” “vado al gioco”, mi dice Ali una sera. Io non capisco ma rimanendo al suo fianco per qualche minuto mi rendo conto che, quello che la mia mente traduce come un’azione volta allo svago, è in realtà qualcosa di molto più serio e pericoloso.

Si è davvero stracciato così il diritto al movimento, il valore e la dignità della vita umana rendendoli un mero gioco a “guardie e ladri” dove i ladri sono uomini, donne e bambini in fuga da persecuzioni, guerre, da paesi che non garantiscono la libertà di parola, di culto e di amare chiunque si voglia e, dall’altra parte, le guardie sono interpretate dalle forze dell’ordine dispiegate alle frontiere?

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Ali mi racconta che quello che sta per intraprendere è il quarantasettesimo “gioco.” Ci si prepara la sera, portandosi con sé il necessario fatto di coperte, sacco a pelo, scarpe in buone condizioni, felpe, giacche ed un sacchetto viveri per resistere più a lungo durante quello che potrebbe essere un lungo “viaggio nel viaggio.” Si oltrepassa la frontiera di notte, attraversando le aree boschive al confine tra Serbia e Croazia, si cammina, ci si ferma, si riprende il passo appena la foresta sembra non far rumore. Ci si riferma spaventati dalla presenza di forze dell’ordine che setacciano le aree di confine tutta la notte e si cerca di evitare ogni minimo contatto con “l’allarme del bosco” che non sono altro che sensori di calore ed altoparlanti che si attivano appena percepiscono la presenza di un corpo umano in transito. Ali mi racconta tutto questo e me lo racconterà più crudamente il giorno successivo, al suo ritorno dalla frontiera.

“They pushed me back,” “Mi hanno cacciato indietro,” ed è la quarantottesima volta adesso. “Sono riuscito ad andare ben oltre il confine ma poi, avendo esaurito le mie scorte, mi sono dovuto avvicinare al villaggio più vicino a me. Credo che, nel vedermi, gli abitanti del villaggio abbiano contattato le forze dell’ordine che da lì a poco sono arrivate per portarmi indietro. Mi hanno fatto salire sulla loro camionetta, ero insieme ad altri quattro amici, e ci hanno portati alla centrale di polizia più vicina. Ci hanno fatto aspettare alcune ore, ritirandoci tutti i cellulari e requisendoci il denaro che avevamo con noi. Una volta conclusa la nostra identificazione, ci hanno riportati alla frontiera.” “Cioè vi hanno accompagni qui a Šid?” chiedo io ingenuamente. “No, ci hanno lasciati a pochi metri dalla frontiera e ci hanno urlato addosso, “Taliban di merda non provate più a tornare qui!,” e abbiamo camminato così per altri trenta chilometri. Non so dove siano finiti i miei soldi e questo,” mi indica il suo telefono cellulare completamente distrutto, “è quello che mi è stato restituito quando ho chiesto dove l’avessero messo”.

Questo è ciò che quotidianamente succede ai cofini tra Serbia e Croazia, dove i diritti sono sospesi.

Come ci ricorda Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo contemporaneo,

“Essere morali significa, in sintesi, conoscere la differenza tra il bene e il male, saper tracciare la linea divisoria tra uno e l’altro ed essere in grado di distinguerli quando sono davanti a noi o abbiamo intenzione di compierli. Per estensione, significa anche riconoscere la propria responsabilità nel promuovere il bene e resistere al male”.

Ho la sensazione, che è paura allo stesso tempo, che si stia sempre più erodendo il nostro “essere morale,” incapaci di fare una distinzione tra il bene ed il male, tra giusto e ingiusto.