Giorno 19
Irun – Salamanca
via Palencia
Cronaca di una notte priva di eventi trascorsa tra la piazza e la stazione di Irun
I posti quando viene buio cambiano e, per percezione sensoriale e per tradizione, convenzione, diventano improvvisamente minacciosi. L’idea di dover trascorrere una notte senza sonno e senza nessuno in un luogo sconosciuto e relativamente poco popolato non mi piaceva per niente. Ma forse meglio che fosse poco popolato. Una notte alla stazione di Irun me la posso permettere, una notte alla stazione, chessò, di Budapest o anche della mia stessa Milano farei di tutto per evitarla. Comunque sia, nonostante i miei nervi a fior di pelle, non è successo assolutamente niente. Talmente niente che ho passato buona parte del tempo a fissare torva il grande orologio della sala d’attesa della stazione (miracolosamente aperta, miracolosamente vuota), sono andata avanti di trecento pagine buone nel mio romanzo e ho mangiato una tavoletta di cioccolata al latte nestlè domandandomi quanto possa ancora maltrattare il mio stomaco prima che questo decida di punirmi con un nuovo attacco di gastrite.
L’unico incontro di cui avrei volentieri fatto a meno è stato con un gruppetto di ragazzini che, mentre giravo in tondo nella piazza principale per decidere che farne di me stessa, prima mi ha offerto da fumare e poi ha avuto la brillante idea di tirarmi in mezzo. Fastidiosi ma per lo più innocui, non c’è modo più rapido ed efficace di ricambiare le attenzioni indesiderate di maschi alle prese con l’arroganza adolescenziale che ridere loro in faccia. Si confondono, rimangono spiazzati, liberano il campo in quattro e quattr’otto. È una mossa vagamente crudele, lo riconosco, si potevano ignorare, ma io ero nervosa e loro avevano il vantaggio del numero. Li ho guardati di malumore mentre si ritiravano in silenzio e mi sono seduta al tavolo di un bar lì vicino, dove ho passato le successive tre ore a bere caffè, fino a quando la cameriera non ha preso a chiamarmi chica e a rivolgermi enormi sorrisi ogni volta che mi passava di fianco. Come vi ho già detto, la solitudine attira l’attenzione, e spesso anche la premura. Che poi, come ho scoperto, nonostante la mancanza di alloggi per Irun passano i pellegrini in viaggio sul Camino de Santiago, quindi ai viaggiatori arruffati che vagano con lo zaino in spalla dovrebbero esserci abituati.
Verso le due, i bar hanno chiuso i battenti e io mi sono ritirata in stazione. Silenzio, silenzio, silenzio, il ronzio delle luci al neon e la consapevolezza che se mi mettevo a fantasticare su possibili scenari horror sarebbe stata la fine. Ho sobbalzato a qualsiasi rumore per le prime due ore, poi mi sono rilassata, incastrata su una panca, avvolta nel sacco a pelo e ho iniziato ad apprezzare – vagamente – la situazione surreale. Avrei potuto mettermi a dormire, ma non mi andava di perdere la consapevolezza della mia posizione e aprire gli occhi all’alba sulla faccia perplessa di un bigliettaio vestito di giallo fosforescente che non dice niente, ma guarda e giudica. La cosa avrebbe fatto prendere male sia me che lui.
Alle sei sono comparsi i primi lavoratori, il cigolio dei primi treni in partenza, il cielo si era fatto grigio e rosa e infine il blu trasparente e fresco delle mattine estive. Ritirato il buio è calata l’adrenalina e gli occhi hanno iniziato a bruciarmi per la stanchezza e il troppo leggere. Mi sono trascinata al bar della stazione, finalmente aperto, con i panini ripieni di tortilla unta esposti sul bancone e il chiacchiericcio straniero dei pendolari. Bello eh, ma never again.
Mi potreste chiedere, come me lo chiedo anche io, che cosa c’è di bello in situazioni simili? Dove si colloca, tra lo stress, la stanchezza e quant’altro, la dimensione della vacanza? E la soddisfazione del viaggio? Ma non è forse, il viaggio, un universo parallelo nel quale ci si immerge, un tunnel in cui si precipita e si acquista sempre più velocità, e tutto quello che viene, che sia bello o brutto, è parte scontata dell’esperienza e non fa altro che contribuire all’euforia costante del movimento?
E all’euforia costante del movimento, ho realizzato, rigirando il cucchiaino nel caffè al gingseng che doveva essere un cappuccino ma la barista aveva un’aria inviperita e non mi andava di correggerla, si è aggiunto un certo orgoglio nei confronti di me stessa. Ce l’ho fatta. E non a dormire in una sala d’attesa vuota, che quello sono bravi tutti, ma a gestire la situazione, a rimanere calma, a fare i conti con l’errore di calcolo e l’imprevisto, e, senza crisi isteriche, decidere per la soluzione. Quando finalmente sono salita sul treno e mi sono avvolta nel sacco a pelo (regola n.1 del dormire sui treni, abbi il sacco a pelo a portata di mano, che può fare molto caldo, ma può fare anche molto freddo) mi sono sentita un po’ più grande e un po’ più coerente e un po’ meno ragazzina milanese sprovveduta alle prese con le ferrovie europee. Cosa che continuo a essere e che allo stesso tempo non ho mai pensato di essere, non so se mi spiego, forse ho una bipolarità latente, la stanchezza estrema fa vacillare le certezze.
Riflessione
Per chi viaggia in treno, le città si trasformano e acquisiscono tutte, per quanto diverse le une dalle altre, una stessa anatomia. La stazione ferroviaria diviene il cuore pulsante, la piazza principale, il primo luogo che si vede, quello dove, paradossalmente, si finisce per passare più tempo, un cuore pulsante collegato a centinaia di altri cuori pulsanti in tutta europa dalle arterie delle ferrovie. Al di fuori di essa, inevitabilmente familiare, si estende una terra di imprevisto, che può essere più o meno ostile, più o meno interessante, nella quale il viaggiatore si muove a tentoni, cercando altre cellule di sicurezza che lo inglobino. Gli ostelli offrono riparo, ma solo se si ha avuto il buon senso di prenotare, il che li rende imprevedibili e scostanti come punti di riferimento. I bar, possibilmente non troppo affollati e disposti a lasciare che i clienti sostino a lungo senza consumare troppo, anche perchè, al di là della dimensione economica, c’è un limite umano di caffè che posso ingerire in un giorno senza compromettere il mio già traballante sistema nervoso. I parchi, che, quando fa caldo, offrono la possibilità di sdraiarsi, togliersi le scarpe, dormire, ma allo stesso tempo lasciano estremamente esposti, due facce di una stessa medaglia. Gli uffici turistici – dove si trovano le cartine – i bagni pubblici e, se ci si trova in zone del mondo particolarmente civili, le sale fresche dei musei gratuiti. Poi ci sono quei luoghi che mi piace immaginare come terre di nessuno, i possessi spersonalizzati della globalizzazione, dove nessuno di fatto appartiene e dunque tutti appartengono, dove si sa che si può passare inosservati, dove si sa già cosa si può trovare e cosa no, eternamente uguali, poco interessanti e tuttavia, talvolta, quando ci si sente deboli e bisognosi di protezione, salvifici: i McDonald’s e gli Starbucks. Dappertutto, e dappertutto uguali. Ricordo con particolare affetto il McDonalds aperto 24/24 della stazione tedesca di Karlsruhe, dove, un paio d’anni fa, in una notte simile alla mia notte a Irun, io e una mia amica passammo una quantità imprecisata di ore e osservammo la triste parata di un numero imprecisato di addii al nubilato e al celibato.
Il primo dei due treni per arrivare a Salamanca ha un ritardo di quaranta minuti, perderò la coincidenza e rimarrò per sempre in un posto come Palancia, dove probabilmente non c’è niente, e allora sarà il momento buono per buttarsi per terra, scoppiare a piangere e rimanere lì. Un bambino, due file di sedili più avanti, piange ininterrottamente da un’ora, poverino. Povero lui? Povera me? Poveri soprattutto i genitori, che hanno deciso di figliare e poi hanno deciso di portare la loro progenie su un treno affollato, e ora si rimpallano il neonato con facce disperate cercando di farlo smettere e lanciando sguardi di scuse tutto intorno. Fuori i campi di grano falciato, gialli, mi ricordano la zazzera di un qualche bambino biondo al mare, tagliata da una madre frettolosa. Sono esausta e tutta la soddisfazione della notte passata svanisce rapidamente, lasciando il posto a nera frustrazione.
Ma state tranquilli, se un treno ha quaranta minuti di ritardo state pur certi che anche la coincidenza ne avrà almeno altrettanti, non mi è chiaro se per duplice disorganizzazione o per preveggenza ferroviaria.