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Arrivo di mattina con il notturno da Praga.

Si dice che tanto tanto tempo fa, nel mar Baltico, vivessero due sirene sorelle, che un giorno decisero di abbandonare il mare e andare a vivere vicino alla terraferma. Una, la più famosa, nuotò fino al porto di Copenhagen, dove ancora si può vedere la sua statua. L’altra, invece, visto che siamo in Polonia, ci interessa di più, come ci interessano sempre di più le storie meno famose. Comunque, la seconda sorella sirena entrò nel porto di Danzica, e da lì nuotò lungo la Vistola, fino alle spiagge di Varsavia, dove decise di fermarsi e prender residenza. Presto, però, i pescatori della città si accorsero che qualcuno, nottetempo, aiutava i pesci a fuggire dalle loro reti e molto seccati decisero di punire il colpevole. I propositi di vendetta, tuttavia, sfumarono velocemente quando i pescatori si trovarono davanti alla bella sirena. Rimasti incantati dalla sua splendida voce, giurarono di non farle mai del male e per tutti i giorni che seguirono lei rallegrò le loro serate con canti e canzoni.

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Poi venne un giorno in cui un ricco mercante vide la bella sirena mentre passeggiava lungo il fiume, e decise di catturarla per esporla alle fiere e trarne profitto. La sirena cadde nella trappola, ma le sue grida d’aiuto furono tante e tali che presto il figlio di un pescatore le sentì e accorse a salvarla. La sirena, piena di gratitudine, promise da quel momento in poi di aiutare gli abitanti di Varsavia a difendere la loro città ad ogni costo e nella statua che la raffigura ha scudo, spada e sguardo fiero.

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Le fiabe mi hanno sempre affascinata, e quelle nordiche in modo particolare, soprattutto quando vedono creature non umane raffigurate in statue e disseminate in giro per le città, per proteggere gli abitanti con i loro poteri magici. Possibile che sia un lascito della passione ossessivo-compulsiva che ho coltivato per Harry Potter nella prima adolescenza – anzi, probabile. In ogni caso non si può dire che la sirena di Varsavia abbia fatto un buon lavoro, se si pensa al fatto che durante la Seconda Guerra Mondiale la città è stata rasa al suolo per l’84% (84%!). L’84% delle case, dei monumenti, delle chiese distrutte, polverizzate, diventate mucchi di detriti. Al museo sulla rivolta di Varsavia che ho visitato questa mattina la gente si accalcava in coda per partecipare alla visione di un film 3D che mostrava in dettaglio, in 3D appunto, quanto e come avessero rasa al suolo Varsavia, i tedeschi, mentre le truppe sovietiche stavano a guardare. Ho guardato la coda e, come faccio sempre davanti alle code, ho virato dall’altra parte, perché gli accumuli di turisti mi danno sui nervi, soprattutto se presi da quella frenesia della rovina e della distruzione di cui sinceramente potrebbero, ma meglio dire potremmo, anche fare a meno.

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Una città rasa completamente al suolo e poi ritirata su alla meno peggio, in modo sclerotico e comunista nel dopoguerra non può, di fatto, essere bella. Può essere affascinante, ma di sicuro non può essere bella.

Berlino, per esempio, non è bella dal punto di vista estetico, sfido chiunque a dirmi il contrario. E Varsavia è un po’ come Berlino, anche se parecchio più povera e più vuota. Ci sono tanti parchi, quello sì, e molto grandi, e c’è il fiume con le sue spiagge, quelle su cui è approdata secoli fa la sirena protettrice. Che probabilmente durante le guerre e la ricostruzione e tutto quanto il resto era andata a prendersi una meritata vacanza, o almeno spero, perché altrimenti la sua inadempienza è grave.

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Se qualcuno vi ha assicurato che Varsavia la si può visitare tranquillamente a piedi, che il biglietto per i mezzi si può anche non farlo, be’ , questo qualcuno mentiva e voleva punirvi di qualche malefatta che non vi ricordate di avergli fatto. Questo ho pensato arrancando sotto il sole per ore, chiedendomi che cosa avessi fatto di male ai miei amici di Praga per meritarmi un consiglio così poco pratico. Okay, va bene, probabilmente le dieci ore di treno notturno, l’arrivo alle sette del mattino, l’ostello che non mi fa fare il check-in fino alle tre del pomeriggio e quant’altro hanno contribuito al mio senso di sconforto. Quello, e il fatto che per l’intera giornata sono riuscita in modo ammirevole a non avere la più pallida idea di dove fossi per i tre quarti del tempo. Ho fissato cartina e cartelli stradali con aria vacua, imboccato vie a casaccio, scelto tra destra e sinistra più o meno con la stessa cognizione di causa con cui si sceglie testa o croce quando si lancia la moneta. Solo che Varsavia è grande, e così non si arriva più o meno da nessuna parte. Infatti per tutto il giorno non sono arrivata da nessuna parte, se non in posti in cui non volevo arrivare.

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Ma va bene, perdersi fa parte del gioco, del viaggio, dell’esplorazione. L’importante è guardarsi intorno e assimilare tutto, colori, suoni, odori, le signore che vendono ciliegie e cetrioli all’angolo delle strade, i negozi di vodka, i chioschi dei giornali. E poi evidentemente mascheravo bene la mia totale inconsapevolezza di dove, come quando, perché ben in tre mi hanno chiesto informazioni in polacco, per poi rivolgermi sorrisi a quarantadue denti quando confessavo no, non parlo polacco, e anche se lo facessi probabilmente non potrei essere d’aiuto in questo momento. “I hope you have a nice day!”, mi hanno augurato tutti e tre, nei tre diversi momenti della giornata, e la cortesia mi ha messo di buon umore.

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Il fatto è che arriva quel momento dell’interrail in cui sei troppo stanco per andare avanti, e in quel momento, invece di tirare dritto come un carro armato ignorando i limiti fisici ma odiando tutto quello che succede, devi accettare la stanchezza e svenire sul letto dell’ostello per quattro ore fin quando le pile non sono di nuovo cariche. Quello che ho fatto, con qualche ritardo, quando finalmente mi hanno concesso di fare il chek-in, anche io, con la mia mascherina di paillettes rosse. Che poi negli ostelli il pomeriggio non c’è mai nessuno e si dorme che è una meraviglia.