La scarsità di lavoratori non è un problema solo italiano, ma altrove si cerca una soluzione alzando i salari. Da noi, invece, continuano le lamentele contro i sussidi e il reddito di cittadinanza
La scorsa settimana abbiamo cercato di smontare la narrazione predominante dei giovani inetti che preferirebbero prendere sussidi — aka il reddito di cittadinanza — piuttosto che passare l’estate a lavorare. Come abbiamo visto, i motivi della mancanza di manodopera nel turismo e nella ristorazione sono in realtà più complessi, e hanno a che fare soprattutto con la precarietà del lavoro offerto, con l’impatto di un anno e mezzo di pandemia e con determinate scelte politiche che negli ultimi anni hanno reso la mancanza di lavoratori stagionali un tema evergreen dell’estate italiana. Negli ultimi giorni, la teoria sui sussidi non si è spenta, e anzi un intervento goffamente paternalista di Guido Barilla sulle pagine della Stampa ha innescato una reazione feroce sul web.
Il tema del lavoro è tornato a occupare le prime pagine dei giornali anche per altri motivi, tra la conta, ormai quasi quotidiana, delle morti di operai e la fine del blocco dei licenziamenti. C’è un fatto, però, che sfugge al dibattito italiano: la carenza di manodopera non riguarda soltanto i lavoratori del settore ristorazione e ospitalità, ma anche moltissimi altri reparti che nulla hanno a che vedere con l’immaginario dei “lavoretti estivi.” Qualche esempio. L’edilizia vola grazie agli incentivi statali e al PNRR di prossima attuazione, ma non si trovano persone per far partire i cantieri. Non parliamo solo di operai: mancano anche i tecnici, ingegneri e geometri di cantiere. Confimi, voce di 45 mila imprese manifatturiere, segnala anche la mancanza di tornitori, saldatori, falegnami, manutentori e idraulici. Anche in questi casi, le aziende sono in buona salute – solo l’11% delle imprese associate prevede di fare licenziamenti dopo giugno e quasi un terzo punta ad assumere – ma non si trova manodopera.
Per quanto riguarda il reparto metalmeccanico, la recente indagine congiunturale di Federmeccanica rivela che, malgrado le buone prospettive occupazionali, più della metà (56% delle imprese incontra difficoltà nel reperire i profili professionali necessari per l’azienda. Un dato peggiore di quello di due anni fa (47%). Il problema, insomma, non è trascurabile. Secondo Pietro Ichino – il giuslavorista considerato padre del Jobs Act – ogni mese ci sarebbero addirittura 100 mila posti disponibili che restano scoperti. L’Istat rimane più contenuto nelle stime, e parla di 230 mila posizioni vacanti nell’intero 2020. Se si confronta quest’ultimo dato con il numero di occupati in meno dall’inizio della pandemia (800 mila), si intuisce che la manodopera certo non manca, ma per dei precisi motivi la forza lavoro inoccupata non soddisfa l’offerta.
Quali sono? Le aziende richiedono delle competenze sempre più difficili da trovare nel mercato del lavoro attuale. L’economista dell’OCSE Fabio Manca calcolava nel 2018 che circa il 6% dei lavoratori italiani ha competenze insufficienti per svolgere le mansioni richieste sul posto di lavoro. Inoltre, il 18% possiede un titolo di studio inferiore a quello richiesto dalla sua professione e il 35% è impiegato in settori che non corrispondono alla propria area di studio – questo vale soprattutto per i laureati in materie umanistiche. In un paese come l’Italia, dove il cosiddetto skill mismatch è un problema strutturale, l’impatto della pandemia sul mercato del lavoro è stato inoltre amplificato. Risultato: una fuga dai settori più colpiti dalle restrizioni – a partire da turismo e ristorazione – verso nuovi comparti, magari all’estero.
Questo vale, nel piccolo, in Italia ma più in generale in tutto l’Occidente. Negli Stati Uniti, UK, Germania e Giappone l’indice che calcola il numero di offerte di lavoro segnala una forte crescita. In particolare, la CNN arriva a scrivere che negli USA “si assume come mai prima d’ora.” Il commento è relativo agli ultimi dati – di aprile – diffusi dal Bureau of Labor Statistics: in un mese sono state create 9,3 milioni di nuove posizioni vacanti, rispetto agli 8,3 milioni attesi. Si tratta del dato più alto dal dicembre del 2000, quando è iniziato il monitoraggio. Eppure, malgrado sempre più aziende cerchino lavoratori, le imprese americane hanno assunto “solo” 6,1 milioni di persone ad aprile, lasciando scoperti milioni di posti.
In Europa la criticità è presente, ma più contenuta. Con le riaperture dei locali, ad esempio, anche in Germania si fa fatica a trovare personale. E questo, malgrado gli annunci di lavoro pubblicizzati da ristoranti e alberghi siano aumentati del 22% nei primi tre mesi del 2021. Lo stesso vale per il Regno Unito, che oltre a gestire l’impatto della pandemia sui flussi di lavoratori, deve anche rimpiazzare gli 1,3 milioni di professionisti stranieri che hanno lasciato il Paese a causa della Brexit. Anche in Regno Unito, come in Italia, c’è carenza di personale in settori eterogenei, a partire dall’edilizia, ma anche negli autotrasporti e nella raccolta di frutta e verdura. La mancanza di personale in Europa e USA era comunque intuibile da alcune avvisaglie. Già ad aprile, in Israele – il primo paese ad allentare le restrizioni – i ristoratori si lamentavano dei sussidi governativi che “rubano” manovalanza alle cucine. Nelle settimane successive, accuse contro gli aiuti pubblici a sostegno delle famiglie sono state scagliate un po’ ovunque nei paesi in cui l’economia stava tornando a crescere.
C’è però una differenza non trascurabile tra l’Italia e le altre nazioni. All’estero i datori di lavoro stanno provando a incentivare nuove assunzioni alzando i salari.
Negli Stati Uniti, il primo trimestre del 2021 ha segnato il più grande aumento medio degli stipendi negli ultimi 14 anni – anche se si tratta di un dato spesso imprevedibile. Sempre negli USA, alcune grandi aziende stanno alzando i salari per attirare lavoratori. Ad esempio, Mc Donald’s ha annunciato che alzerà il salario orario per i dipendenti dei suoi ristoranti statunitensi gestiti direttamente dall’azienda — il 5% del totale, il resto è in franchising. Misure simili sono state prese dalla catena Chipotle e da Amazon. Un trend simile è stato registrato anche nel Regno Unito. Qui, i salari medi orari che vengono proposti nelle offerte di lavoro sono cresciuti del 2,2%, passando dalle 9,25 sterline del primo trimestre del 2021 alle 9,45 sterline di fine maggio.
Certo, fa notare il Financial Times, in paesi come l’Italia o la Germania l’aumento dei salari va più a rilento per via del diverso sistema di contrattazione. Eppure, nonostante la pandemia, lo scorso ottobre il governo Merkel ha deciso di alzare il salario minimo nazionale per supportare la domanda interna. Al contrario, in Italia il tema dell’aumento salariale rimane un tabù. E questo malgrado il fatto che abbiamo le retribuzioni più basse sia rispetto a quelle delle altre grandi economie dell’Unione Europea sia in confronto alla media OCSE.
Anche questa, insomma, è stata un’occasione persa per discutere della situazione dei salari in Italia. Nelle scorse settimane è stata di nuovo affossata dal governo Draghi la prospettiva di una riduzione del salario minimo anche nel nostro paese: in una bozza del Pnrr si parlava di una “rete universale di protezione dei lavoratori” e del “salario minimo legale,” oltre alla garanzia di una retribuzione “proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto” per tutti i lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva nazionale. Il paragrafo, però, è sparito di netto dalla versione definitiva del piano.
I possibili spunti di discussione sui salari in Italia in realtà vanno molto oltre quelli sul salario minimo. È interessante notare che nel corso degli ultimi quindici anni nel nostro paese sono scesi, rispetto alla media degli altri paesi Ue, anche i salari medi. Secondo dati dell’International Labour Organization, tra il 2000 e il 2017 gli stipendi reali in Italia sono diminuiti dello 0,5% — mentre, ad esempio, in Francia sono aumentati dello 0,7% e in Germania dell’1%.
Questo grafico invece mostra come l’Italia sia rimasta indietro anche rispetto agli altri paesi del G20.
Insomma, non è un caso che nel nostro paese sia stata accolta con grande entusiasmo l’intesa sul nuovo contratto dei metalmeccanici, che prevede un aumento in busta paga di circa 100 euro. Un accordo raggiunto dopo più di anno di complessi negoziati. Una chiara dimostrazione che, malgrado la crisi economica e pandemica, un discorso serio sulla sostenibilità salariale è possibile anche in Italia — e, anzi, è necessario. Barilla e polemiche sul reddito di cittadinanza permettendo.
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