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“Dramma dei padri separati,” “separazione difficile,” “mai una parola fuori posto”: di fronte all’omicidio-suicidio di Margno i giornali italiani hanno scelto ancora una volta di stare dalla parte del carnefice

Per gran parte della stampa italiana, il caso di omicidio-suicidio avvenuto a Margno è stata l’ennesima occasione sprecata di parlare seriamente di violenza di genere. O, almeno, di coprire un caso di cronaca nera senza scadere nella solita inclinazione alla morbosità scandalistica. Invece, da quattro giorni i principali quotidiani — digitali e cartacei — sono pieni di articoli rivoltanti che riescono a combinare morbosità e victim blaming, mostrando una grande empatia nei confronti dell’omicida, e nessuna nei confronti delle vittime — sia i due bambini uccisi, sia la madre, rimasta in vita.

La fattispecie di reato in sé non è nuova: storie di padri che uccidono i figli, spesso perché incapaci di accettare i termini di una separazione, sono relativamente frequenti, così come quelle di uomini che per lo stesso motivo uccidono la propria moglie, ex moglie o compagna. È un fenomeno che si inquadra in quello, più ampio, della violenza di genere: l’omicidio dei figli in seguito a una separazione, così come quello della (ex) partner, deriva dalla stessa concezione possessiva del rapporto matrimoniale o genitoriale. L’uomo vuole disporre del corpo della donna e dei figli, spingendo questo possesso fino al diritto di vita o di morte, come reazione a qualsiasi tentativo di emancipazione. 

L’idea che l’uomo disponga del corpo femminile è radicata a tutti i livelli nelle culture patriarcali, più o meno consciamente. È la stessa idea che qualche giorno fa ripeteva su Radio Capital con grande naturalezza e senso di ovvietà lo psichiatra Raffaele Morelli, nel suo alterco con Michela Murgia. Non stupisce quindi che molti giornalisti maschi all’interno di redazioni composte in gran parte da maschi trovino molto facile empatizzare con l’autore di un duplice omicidio premeditato, scaricandone esplicitamente la responsabilità sulla moglie. 

A cos’altro servono, se non a spingere il lettore a comprendere e empatizzare, tutti i dettagli sul rapporto idilliaco che il padre avrebbe avuto con i due figli? E le rievocazioni melodrammatiche dell’“ultima gita”? “Viveva per loro e trascorreva ogni momento libero con loro, come testimoniano le decine di foto sui suoi profili social che lo ritraggono mentre li accompagna in bici, a cavallo, sui roller, agli airshow, a nuotare e soprattutto in montagna. Eppure li ha uccisi entrambi, quasi per dispetto, per vendicarsi di chi voleva lasciarlo,” si legge sul Giorno. Il Corriere della Sera — ma non è il solo — preferisce dare spazio nel titolo ai messaggi che l’omicida ha scritto su WhatsApp alla moglie, attribuendogli il virgolettato “Hai rovinato la nostra famiglia.” Il profilo dell’assassino, sullo stesso giornale, è titolato così: “Mario Bressi: calcetto, oratorio e «mai una parola fuori posto»”, con le stesse virgolette decontestualizzate che servono a dipingerlo positivamente, come un padre di famiglia “amorevole,” senza però assumersi pienamente la responsabilità di farlo.

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Il sottotesto è molto chiaro: la colpa è della moglie — se lei non avesse voluto la separazione, un uomo così normale non avrebbe mai compiuto un atto del genere. È questa la conclusione a cui viene spinto con insistenza il lettore, che nulla sa della storia di questa famiglia e di queste persone. Per questo tocca perfino leggere le dichiarazioni dell’avvocato della moglie, secondo cui “non aveva alcuna intenzione di portare via i figli al marito,” come se da parte di una donna che subisce una tragedia del genere fosse necessaria una sorta di autodifesa pubblica. 

Non si tratta purtroppo di un caso isolato: anche per raccontare i femminicidi spesso e volentieri i giornali italiani indulgono in dettagli che finiscono per oltraggiare e colpevolizzare le vittime. Si parla di raptus anche quando è evidente la premeditazione, si sottolinea “l’amore” che il carnefice portava per la vittima e la sofferenza provata di fronte al rifiuto o alla separazione, si pubblicano le foto di coppia saccheggiate dai social network. È la “solitudine del femminicida,” come l’ha definita Giulia Blasi. Naturalmente, quando si verificano fatti di cronaca di segno opposto — come madri che uccidono i propri figli — tutta questa empatia sparisce magicamente.

Secondo i dati Istat, nel 2018 in Italia sono state uccise 133 donne, nel 54,9% dei casi vittime del partner attuale o precedente. Si tratta di un’emergenza nazionale che non si può pensare di affrontare soltanto sotto il profilo giuridico e legislativo: all’ecosistema mediatico va il compito fondamentale di non normalizzare questo tipo di violenza nel discorso pubblico, di non lasciare spiragli a nessun tipo di giustificazione o — se proprio non ci si riesce! — almeno di non colpevolizzare le vittime. 

Il fatto, poi, che il caso di Margno sia inserito nella cornice narrativa del “dramma dei padri separati” è ancora più preoccupante, perché fa riferimento a un’idea cardine dei movimenti misogini degli MRA (Men’s Rights Activists) — secondo cui il fatto che gran parte delle sentenze di affido di minori si risolvano a favore della madre costituisce un’emergenza sociale paragonabile a quella dei femminicidi, una forma di violenza di genere al contrario. Ed è un’idea che anche in Italia ha dei precisi referenti politici: ricordiamo il disegno di legge presentato due anni fa dal senatore leghista Simone Pillon, voleva imporre “l’affido condiviso, il mantenimento diretto e la garanzia di bigenitorialità,” mettendo a rischio la possibilità, per le donne, di liberarsi dai vincoli di una relazione abusiva. Come scrive Elisabetta Salvini sull’HuffPost, “la narrazione di questo dramma, purtroppo, è affidata unicamente al punto di vista maschile e con esso alla ricerca di una colpa assoluta, di un alibi e una giustificazione che possa legittimare, in qualche modo, quel gesto, per farlo diventare ‘disperato’ o ‘folle’ e non, come troppo spesso accade, prevedibile, perché frutto di una cultura specifica che ha un nome e ‘rituali’ che si ripetono uguali.” 

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Ma è così difficile dare notizia di un caso di cronaca senza soffermarsi su particolari scabrosi da tabloid, senza romanticizzare gli assassini e giustificare — in un modo o nell’altro — il loro crimine? Evidentemente non lo insegnano nelle scuole di giornalismo. A proposito: questa settimana si è chiusa con la bella notizia dell’uscita di Vittorio Feltri dall’Ordine dei Giornalisti — anche se purtroppo, a quanto sembra, non è stata una decisione dettata da una presa di coscienza o un ravvedimento. Ecco, se l’Ordine dei Giornalisti servisse ancora qualcosa, sarebbero molti i colleghi che dovrebbero seguire il suo esempio. 

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