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tutte le foto di Edoardo Vezzi

Una delle campagne più attive di aiuto umanitario alla popolazione ucraina parte da Roma, dalla chiesa greco-cattolica di Santa Sofia. Il rettore Semehen racconta l’impegno della comunità contro la guerra, iniziato molto prima dell’ultima invasione russa

Decine di persone, molte appartenenti alla comunità ucraina, hanno aiutato in questi giorni don Marco Semehen a sistemare pacchi e caricare furgoni. Qui, da giorni ormai, grazie al lavoro del rettore della Basilica, si raccoglie tutto il necessario per aiutare i rifugiati ucraini. Dopo una settimana di guerra, quelli che fuggono dal proprio paese hanno superato il milione e mezzo.

La Basilica, chiesa nazionale degli ucraini a Roma, è oggi un ritrovo di preghiera fondamentale per la comunità della Capitale. In questi giorni di mobilitazione padre Semehen non si ferma un attimo. Vanno tutti da lui. Volontari, suore, giornalisti e anche la polizia, perché il fenomeno sta diventando talmente grande che c’è bisogno di organizzare al meglio l’afflusso di persone.

Il rettore della Chiesa da anni mantiene vivo l’interesse per la questione ucraina. Nel 2018 aveva accolto Papa Francesco. “Soffriamo tremendamente per una guerra ancora in corso, della quale non si vede la fine” aveva detto. Ringraziava il Capo della Chiesa per aver “messo in campo numerosi sforzi diplomatici, concesso aiuti concreti,” come la colletta dell’anno prima per aiutare i profughi. Oggi a quattro anni da quei giorni la guerra è scoppiata su larga scala e Padre Semehen, che ha un fratello nella regione di Čerkasy, poco a sud di Kyiv, lavora incessantemente.

“Tutto è iniziato con il peggioramento della crisi umanitaria, ma questo via vai così intenso ce l’abbiamo da domenica” dice Don Marco. “Il primo carico lo abbiamo ricevuto dalla dottoressa Lucia Ercoli di Medicina Solidale sabato” – precisa il rettore della Basilica – “poi gli aiuti sono cresciuti perché hanno fatto girare sui social un semplice elenco che gli avevo mandato. Da quel giorno siamo arrivati ad avere tantissime cose.”

Gli aiuti umanitari di prima necessità per l’Ucraina: cibi in scatola di lunga durata, beni per l’igiene personale, sacchi a pelo, torce, termobiancheria, calze, frutta secca, latte in polvere.

Ma come arrivano in Ucraina tutti questi carichi? “Stiamo caricando i furgoni, ora sta per partire l’undicesimo e dovremmo caricarne altri due a breve.” racconta padre Semehen. “Speriamo che ci facciano entrare come carico umanitario. L’ambasciata ucraina in Italia ci ha assicurato che ci sono i corridoi umanitari per far passare i camion.” Tutto quello che viene raccolto raggiungerà i campi di rifugiati nei paesi confinanti, come Ungheria e Polonia. Altri varcheranno il confine per consegnare i beni di prima necessità nei punti di raccolta nell’ovest del paese. Secondo Kyiv, ne beneficeranno anche gli aiuti – in beni alimentari, vestiti e medicine – che arrivano dall’estero.

In questo momento i rifugiati rischiano di soffrire la fame e le malattie, ma anche il freddo. Don Marco consiglia di donare “cibi in scatola di lunga durata, beni per l’igiene personale, sacchi a pelo, torce, termobiancheria, calze, frutta secca, latte in polvere.”

Il conflitto che sta insanguinando l’Europa in questi giorni è una guerra a due facce. C’è la rabbia, la voglia di vendicarsi sul nemico invasore, ma c’è una parte di popolazione che è incredula. Tra i due paesi e tra le due popolazioni il legame è forte, certo non da giustificare l’assalto di Putin, ma sono due territori interconnessi i cui popoli si sono mescolati per lungo tempo.

Ed ecco allora le prime crepe nel mondo ortodosso russo. Un gruppo di 236 sacerdoti e diaconi della Chiesa ortodossa russa ha definito la guerra in Ucraina “fratricida.” Perché tra gli effetti collaterali di una guerra che si combatte su diversi piani, il rischio è anche quello di una rottura dell’equilibrio tra il Vaticano e la Chiesa Ortodossa, che Papa Francesco ha cercato di cucire per anni durante il suo papato, e tra il patriarcato di Mosca, vicino al Cremlino, e quello di Kyiv. Ora però per Don Marco “è troppo presto” per pensare ad eventuali fratture nel mondo religioso. In questo momento lo sforzo solidale e unito deve essere rivolto ai rifugiati.

Le crepe però sono profonde. La Chiesa greco-cattolica ucraina, con sede patriarcale a Kyiv, ha nel nome la sua definizione: greco indica la tradizione liturgico-teologica – cioè di rito bizantino – cattolica si riferisce alla sua comunione con la Santa Sede. Negli anni sovietici i leader dell’URSS hanno provato a riassorbirla nel mondo ortodosso, da cui la Chiesa uniate (Chiesa greco-cattolica) si era sottratta a fine Cinquecento per staccarsi dal patriarcato – ortodosso – di Mosca.

Nel 2013 il clero uniate aveva sostenuto l’Euromaidan – le proteste europeiste iniziate in Ucraina nel novembre di quell’anno – contro il patriarcato ortodosso di Mosca, che ancora vede in Ucraina il proprio bacino di fedeli, anche se non è più così. Ferite religiose che rispecchiano il quadro internazionale.

Intanto, però, in questa settimana la Basilica di Santa Sofia, da sempre riferimento di preghiera per la comunità ucraina, è diventato luogo mediatico. La sua storia ripercorre le fratture religiose e risale al 1969. La chiesa nazionale degli Ucraini a Roma fu voluta, infatti, da Josyp Slipyj, il cardinale e arcivescovo cattolico ucraino che dopo l’occupazione sovietica di Leopoli passò 18 anni nei gulag tra Siberia e Mordovia. Il suo arresto era il primo atto della liquidazione della Chiesa greco-cattolica ucraina da parte di Stalin, che vedeva nella Chiesa di Roma e nelle chiese a lei fedeli i nemici del comunismo. Solo sotto pressione di Papa Giovanni XXIII e di J. F. Kennedy l’amministrazione sovietica guidata da Nikita Chruščёv decise di liberarlo, nel 1963.

Slipyj divenne presto un punto di riferimento degli ucraini e passò i suoi ultimi 21 anni di vita dando un nuovo slancio alla Chiesa greco-cattolica in Occidente, fondando l’Università cattolica ucraina e costruendo la Cattedrale di Santa Sofia a Roma. Nella sua inaugurazione, avvenuta nel 1969 sotto Papa Paolo VI, veniva celebrato “il segno della comunione ecclesiale” tra le Chiese Orientali e la Chiesa Romana.

E oggi, nel cortile della Chiesa i pacchi, le buste della spesa e i cartoni non si contano. Nel magazzino all’interno della Basilica arrivano addirittura al soffitto. Tra i volontari che danno una mano a mettere ordine in quell’esercizio di solidarietà c’è Eugenio, di Roma. È da una settimana che tutti i giorni raggiunge la comunità ucraina per aiutare, dalla mattina alla sera e poi va a lavorare. “Sono qui perché questo popolo non si merita una guerra, nessuno si merita una guerra” – dice Eugenio – “si parla tanto di aiutare ma poi serve che sia fatto concretamente.” Poi lancia un appello perché “qua fa caldo ma lì l’inverno è pesante. A soffrire sono bambini e anziani. Servono coperte e vestiti. Serve da mangiare per i piccoli, omogeneizzati, latte in polvere e anche caffè e tè per scaldare. E soprattutto servono medicine.”

Maria oggi è venuta due volte. Ha portato cibi in scatola, acqua, pasta, riso, tè, caffè e pannolini per i bambini. È emozionata: “Non avevo mai visto così tanta mobilitazione. Ci sono decine e decine di persone che portano beni di prima necessità e tantissima manodopera per caricare furgoni, per aiutare la gente a portare i sacchi, per smistare le cose e raggrupparle per categoria.”

Sui rifugiati ucraini l’Unione europea si stia allineando sul tema dell’immigrazione attraverso l’attivazione della Direttiva sulla Protezione Temporanea e con un meccanismo di solidarietà interna per la redistribuzione dei richiedenti asilo.  La società civile corre in aiuto del popolo ucraino che scappa, cercando di far sentire la propria vicinanza con dei semplici piccoli gesti.

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