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in copertina, foto Francesco Bellina / CESURA

Il 6 gennaio 2021 è stato l’inizio e non la fine dello slittamento dei repubblicani verso l’autoritarismo: Trump li sta trasformando in un partito personale, pronto a tutto per realizzare i suoi piani golpisti

Domani sarà il primo anniversario del famigerato assalto al Campidoglio, la rivolta esplosa al termine della manifestazione in cui, per l’ennesima volta, Donald Trump aveva dichiarato illegittimo il risultato elettorale che lo vedeva costretto a lasciare la Casa bianca. In quelle ore, infatti, si teneva la discussione sul conteggio dei voti: nella fantasia di Trump e dei suoi sostenitori, era l’ultima occasione, dopo una serie di tentativi falliti, di fermare la presidenza Biden, con Mike Pence che avrebbe dovuto farsi carico di invalidare il risultato. 

Appuntamento in Arizona

Inizialmente Trump aveva annunciato per domani una conferenza stampa in cui ci si aspettava di sentirlo ripetere la propria versione dei fatti, ma l’ex presidente ha poi deciso di annullarla, dichiarando che riferirà quanto ha da dire a una manifestazione prevista per il 15 in Arizona. Domani si terrà invece una veglia, organizzata da Nancy Pelosi e parleranno al paese anche Joe Biden e Kamala Harris, che ricorderanno dalla Casa bianca uno dei momenti più allarmanti della storia contemporanea degli Stati Uniti. 

La ferita del 6 gennaio è ancora aperta: il dipartimento di Giustizia in questi mesi ha accusato più di 700 persone di essere collegate all’assalto — anche se al di fuori di pochi esecutori materiali non c’è stato ancora un seguito, politico e giudiziario, per chi ha soffiato sul fuoco del colpo di stato. D’altronde, a differenza di così tanti altri aspetti dell’amministrazione Trump, il tentativo di colpo di stato non è stata un’operazione improvvisata. È immediatamente evidente rileggendo il discorso — qui c’è una utile versione annotata dal Wall Street Journal in occasione del secondo impeachment — che Trump ha tenuto poche ore prima dell’assalto del Campidoglio: non solo l’allora presidente è stato estremamente preciso nella scelta delle parole per proteggersi le spalle da possibili conseguenze legali, ma all’interno del testo si sintetizzano tutti i temi che si faranno centrali delle prossime campagne elettorali — in primis la questione della presunta “Grande sostituzione,” e di conseguenza la necessità di combattere, se non direttamente prendere le armi, per difendere i propri privilegi, o meglio, lo status quo. 

Non è chiaro se la decisione di Trump di cancellare la conferenza stampa di domani sia legata agli sviluppi di queste ore, ma proprio ieri, il comitato che sta investigando i fatti dello scorso gennaio ha pubblicato alcuni SMS tra il conduttore di Fox News Sean Hannity e l’ex capo dello staff della Casa bianca Mark Meadow. Dai messaggi, traspare la forte preoccupazione di Hannity per quello che Trump aveva in programma per il 6 gennaio 2021: “NON credo che il 6 gennaio succederà quello che gli è stato detto,” scrive ad un certo punto il 5 gennaio a Meadows. Hannity aveva consigliato al presidente di accettare la sconfitta e abbassare la tensione.

Deplatforming Donald Trump

Se non seguite la politica statunitense in modo febbrile può sembrare che Trump sia scomparso. Da questo punto di vista, il deplatforming — la messa al bando dalle principali piattaforme social — dell’ex presidente ha funzionato: la sua presenza nel dibattito quotidiano è stata drasticamente ridotta, e, se lo si vuole ignorare, (per ora) lo si può ignorare senza troppe difficoltà. Il suo minore impatto nella conversazione è misurabile. Le sue dichiarazioni immediatamente dopo la cancellazione su Twitter hanno visto una riduzione della circolazione del 50%. D’altronde, avevamo già visto con altre figure dell’estrema destra come spingerle verso piattaforme meno frequentate effettivamente le neutralizzasse.

Purtroppo, però, non è andata così: Trump non è un Milo Yiannopoulos qualsiasi, e ora, anche se non può più twittare cosa pensa della vita romantica di Robert Pattison e Kristen Stewart e nemmeno dire che vuole bene a chi cercava di mettere sotto assedio il Campidoglio, in questo anno è diventato solo più potente. Trump è ancora tra noi, e non se n’è mai andato.

Ma che cosa è successo? Durante l’anno si sono susseguiti momenti imbarazzanti per l’ex presidente — quando ha cercato di aprire un blog e poi lo ha chiuso, e quando ha annunciato l’apertura di un proprio social network costruito rubando il codice di un altro progetto, Mastodon. Intanto, però, ha iniziato a lavorare anche a una grande purga, che entro la fine di quest’anno dovrebbe consegnargli il partito in modo irrimediabile. L’obiettivo di Trump è innanzitutto politico — vuole un partito personale, ma vuole soprattutto un partito disposto a sostenere i suoi intenti golpisti: David Perdue, il candidato trumpiano alle primarie repubblicane per il governatore della Georgia, ad esempio, ha recentemente dichiarato che si sarebbe rifiutato di firmare il certificato elettorale del proprio stato, rispettando l’ordine di Trump di ignorare il risultato e cercare di ribaltare il risultato elettorale. 

Trump è completamente trasparente nelle sue mire, e ovviamente è anche personalmente soddisfatto di “regolare i conti” dentro un partito che, solo pochi anni fa, lo vedeva come un alieno — o un utile strumento per raggiungere il potere, nel migliore dei casi. Lo scorso ottobre, quando il parlamentare repubblicano Adam Kinzinger ha annunciato che non si sarebbe ricandidato, Trump ha commentato, gioioso, “2 down, 8 to go!”: Kinzinger era uno dei 10 repubblicani della Camera dei Rappresentanti che avevano votato per l’impeachment. 

Trump firma una lavatrice Whirpool,
durante la visita a uno stabilimento. Foto pubblico dominio / Casa bianca Trump

Il golpe legale

Dire che il partito repubblicano stia cucinando un golpe non è diffondere teorie del complotto, anzi: proprio agitando lo spettro di brogli che non ci sono stati, le maggioranze repubblicane in 19 stati hanno approvato 34 leggi che restringono il diritto di voto — in azioni chiaramente determinate a impedire il voto di persone afroamericane e di minoranze. Ed è appena iniziato: per quest’anno sono già calendarizzate altre 13 nuove leggi. L’obiettivo è esplicito: arrivare alle elezioni di metà mandato con leggi che favoriscano il partito repubblicano, e con candidati che, una volta in posizioni di potere, siano disposti a premere il grilletto quando si ripeterà un’occasione — a differenza dei loro predecessori, che hanno tentennato quando è loro stato chiesto di procedere col colpo di stato.

In qualche modo, si potrebbe dire che Trump vuole, a tutti i costi, evitare che il 6 gennaio si ripeta: nelle settimane successive alla sconfitta elettorale Trump ha cercato, più o meno disperatamente, più o meno fantasticando, di trovare un modo per annullare il voto. La lezione che ha imparato è che le istituzioni statunitensi sono sì fragili, ma non così fragili da non resistere a un tentativo di colpo di stato come quelli che gli Stati Uniti sono soliti sponsorizzare così esplicito. Come scrive Lawrence Douglas per il Guardian, al contrario, l’obiettivo è arrivare alle prossime elezioni con un Congresso e con dei governatori che abbiano già provveduto a organizzare il golpe nei propri singoli stati, seggio elettorale per seggio elettorale.

Come sottolinea Barton Gellman per l’Atlantic, tecnicamente quello che stiamo descrivendo non è un colpo di stato, e proprio per questo può funzionare: ogni legge per limitare l’accesso al voto è per definizione di stampo autoritario, ma i governi locali si stanno muovendo comunque nell’ambito dei propri poteri, effettivamente arrogandosi per il 2024 la possibilità di scartare centinaia di migliaia di voti pur di garantire la vittoria di un candidato piuttosto che di un altro. 

Gli scenari dell’estremismo tattico

Questa deriva non è una cosa nuova: il partito repubblicano ha tendenze esplicitamente autoritarie almeno dagli anni Sessanta, ma per capire come si stia costruendo l’infrastruttura per questo lento colpo di stato, ci serve esaminare più da vicino Trump e la sua piattaforma politica. Un buon punto di partenza è pensare al concetto di “estremismo tattico” — la tattica di un partito mainstream di opposizione che abbraccia posizioni più marcate scommettendo di poter guadagnare consenso sul medio–lungo periodo, quando l’elettorato sarà insoddisfatto delle politiche del partito, o dei partiti, al governo. Questa tecnica non è necessariamente problematica — potremmo fare anche esempi positivi, come quello del Labour di Jeremy Corbyn — ma in questo caso si innesta nella crisi del complottismo di massa che ha portato milioni di persone negli Stati Uniti a credere in un broglio che non è mai esistito ed essere pronti ad accettare un golpe, questa volta, vero.

Trump ha saputo scardinare la dialettica che vedeva in contrapposizione due diversi partiti conservatori negli Stati Uniti: uno fiscalmente conservatore e vicino all’industria, e uno vagamente più interessato al sociale, e vicino ai settori economici più avanzati. Con la propria retorica razzista, sessista e semplicista, ha potuto dare risposte intuitive a una parte sostanziale dell’elettorato statunitense, che stava assistendo al declino del proprio paese — stipendi per chi lavora troppo bassi, crescente ingiustizia sociale, e un gotha che invece vive di lusso e privilegi — senza essere in grado di codificarne le cause. Per questo è possibile già ora guardare alle prossime sfide elettorali tra democratici e repubblicani e vedere la catastrofe. La timida maggioranza di Joe Biden non è in grado di realizzare nemmeno il programma elettorale del proprio presidente — e certamente non ha una voce o una progettualità capaci di dare una dimensione alle difficoltà economiche di un paese intero, ora anche bastonato da una pandemia che Biden aveva promesso di mettere sotto controllo, e che invece continua indefessa.

In un editoriale che meriterebbe una menzione d’onore nel canale #posts-that-aged-badly del nostro server Discord — a proposito, iscrivetevi subito — Ross Douthat scriveva per il New York Times che “non ci sarebbe stato nessun golpe di Trump.” La data era il 10 ottobre, prima che nascesse la retorica della Grande bugia, ma l’analisi non poteva essere più miope: è vero, Trump è rozzo e lascia dietro di sé una lista di gaffe ed errori lunghissima, ma non per questo è un personaggio politico debole, non per questo non è in controllo della propria narrativa — e ha migliaia di persone pronte a prendere le armi per lui. 

In un commento per il Globe and Mail allarmista o allarmato, Thomas Homer-Dixon, fondatore del centro di ricerca Cascade Institute dell’università canadese Royal Roads, arriva a ipotizzare il peggiore degli scenari possibili: che gli Stati Uniti sprofondino in una vera e propria guerra civile. Si tratta di uno scenario che ci sembra assurdo in questo momento, ma che non è più assurdo di quanto fosse pensare a una presidenza Trump nel 2014, come sottolinea il docente universitario. Dopotutto stiamo parlando dell’instabilità politica di un paese dove i civili sono in possesso di quasi 400 milioni di armi da fuoco.

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