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di Stefano Colombo e Emanuela Colaci
In copertina: Milano, aprile 2020. Due bambine giocano alla finestra durante il primo lockdown. Foto: Marta Clinco

La legge di bilancio finanzia solo 20 milioni di euro per i centri per l’impiego destinati ai giovani che non studiano né lavorano. Un terzo della popolazione giovanile da anni non riesce a sottrarsi alla palude di tirocini sottopagati, offerte formative scadenti e contratti precari, per questo ha deciso di non provarci più. Manca un disegno di lungo periodo per il lavoro. Ne abbiamo parlato con Elisabetta Camussi, psicologa sociale e docente dell’Università di Milano Bicocca

Il dato è chiaro: secondo Eurostat il 30% dei giovani italiani dai 15 ai 34 anni non studia né lavora, quasi un giovane su tre, il dato più alto nell’Unione Europea, con una prevalenza femminile (il 34% di giovani donne sono NEET). L’ultimo appello ai giovani è stato quello del presidente della Repubblica Mattarella: “Giovani, prendetevi il futuro.” Ma come costruire un futuro senza un serio programma di riforma del mondo del lavoro che riguardi i NEET? 

La Legge di bilancio è stata approvata dal Parlamento il 30 dicembre. Solo per il prossimo anno la manovra stanzia circa 36 miliardi di euro, con uno scostamento di bilancio di 22,8 miliardi, che andranno invece a finanziare il deficit pubblico: da più parti è stata dunque definita una manovra “espansiva.” La dimensione della manovra però non dice tutto, a cominciare da chi prenderà una fetta più grossa e chi una più piccola dei soldi investiti dal governo. La spesa prevista per “l’attuazione delle politiche attive del lavoro in favore dei giovani di età compresa tra i 16 e i 29 anni, non occupati né inseriti in un percorso di studio o formazione” è di 20 milioni di euro e riservata esclusivamente al funzionamento dei centri per l’impiego. È una misura sufficiente ad invertire una tendenza dei giovani all’inattività stagnante da almeno un decennio?

Abbiamo parlato con Elisabetta Camussi, docente di Psicologia sociale all’università Bicocca di Milano, dei punti più deboli della manovra, in particolare per i giovani — a cui, sembra, il governo si interessa soprattutto a parole. Camussi ha fatto parte della “task force” che il governo Conte 2 aveva creato per supervisionare la destinazione dei fondi in arrivo dall’Europa con il Pnrr. “Mi sembra che anche a fronte di una grossa iniezione economica come il Pnrr continui a mancare una dimensione progettuale e le azioni che vengono fatte anche per le politiche attive del lavoro siano sempre azioni a recupero, non investimento,” ci ha detto Camussi. 

Le misure più rilevanti previste dal governo per i giovani nel 2022 sono lo sgravio contributivo al 100% a favore delle micro imprese per i contratti di apprendistato di primo livello per i giovani under 25, e la presa di posizione per combattere contro i falsi tirocini. Il primo provvedimento è nel segno della continuità: “ Questa manovra incentiva molto una prassi che le aziende già attuano, ovvero assumere a tempo determinato. Nella manovra ci sono incentivi per l’assunzione di giovani ma non per contratti a tempo indeterminato. Di nuovo non abbiamo un disegno complessivo, non c’è un investimento che supporti davvero chi è più fragile, ma nemmeno chi porta positivamente a compimento un percorso formativo — ad esempio in università,” commenta Camussi.

La norma sui tirocini, invece, rappresenta la vera novità contenuta nella manovra e, arriva dopo una petizione su Change.org che denunciava l’aumento dei tirocini extracurriculari: “Dal 2014 i tirocini extracurricolari sono quasi raddoppiati fino a circa 370 mila l’anno. Sei mesi dopo la fine di uno stage meno di uno stagista su dieci è assunto a tempo indeterminato”. Secondo l’emendamento alla manovra proposto dal gruppo Leu, questi tirocini dovranno per prima cosa essere circoscritti “in favore di soggetti con difficoltà di inclusione sociale,” con multe alle aziende che non rispettano i termini contrattuali e utilizzano i tirocini come forza lavoro. Tuttavia, come fa notare il quotidiano Domani, il provvedimento potrebbe produrre un effetto collaterale ovvero far sparire i tirocini, con una platea potenziale stimata al 3% della popolazione giovane e inoccupata. 

Gran parte dei fondi per i punti più rilevanti della manovra sono stati stanziati per il taglio dell’Irpef, il Superbonus al 110% all’edilizia e l’abolizione dell’Irap. Tutte voci che avvantaggeranno soprattutto i ceti alti e medio-alti, i veri destinatari di questa manovra e dell’azione del governo Draghi. I lavoratori dipendenti e le fasce sociali meno ricche riceveranno soprattutto briciole: come fatto notare da Natale Forlani su il Sussidiario, le politiche passive per il lavoro rimangono largamente preponderanti rispetto a quelle attive, in continuità con la direzione politica liberista degli ultimi dieci — ma anche venti, o trenta — anni. Cosa significa questa formula? Le politiche passive sono finalizzate soprattutto a tappare i buchi e gli strappi del tessuto sociale. Rientrano in questo ambito i sussidi di disoccupazione, gli aiuti alle imprese sul punto di lasciare a casa i propri dipendenti come la cassa integrazione, e altri: misure necessarie, ma che agiscono per tamponare un danno e non disegnano una prospettiva di ampio respiro per il futuro. Le politiche attive invece si propongono di dare una direzione al mercato e alla pianificazione del futuro del lavoro.

“Sui giovani si punta soprattutto sull’orientamento, la (ri-)qualificazione, i contratti a termine, gli incentivi per le aziende, ma è come se tutto questo — più che realizzare un disegno che si rivolge al futuro — cercasse di arginare più o meno bene il disinvestimento che è stato fatto nell’ultimo decennio.” L’impressione, guardando i contenuti della manovra, è che la stessa classe e ideologia politica che ha contribuito a creare le attuali storture del mercato del lavoro italiano stia provando a tamponare i danni creati — ma non abbia gli strumenti politici e ideologici per farlo. Un buon esempio di questa doppiezza è l’emendamento sulle delocalizzazioni: dopo un estenuante dibattito la misura approvata è soprattutto di facciata, generosa verso le imprese e insufficiente a prevenire in maniera decisiva il fenomeno delle delocalizzazioni.

La politica italiana però sembra continuare a pensare che i contratti a tempo determinato — e dunque il precariato — siano un modello di sviluppo vincente e spendibile a lungo termine. Nonostante il centrosinistra che sostiene il governo si riempia la bocca di parole sui giovani e il futuro, già da prima della finanziaria era evidente come queste categorie fossero rilevanti solo per il benessere delle imprese più che su un piano umano. Lo scorso agosto, il Pd ha presentato un emendamento al decreto Sostegni bis — uguale ad altri presentati da Lega, FI e FdI — che consente alle imprese di prorogare indefinitamente rapporti di lavoro a termine senza indicare causali previo accordo con i sindacati. 

“Questo atteggiamento è molto penalizzante, perché impedisce di costruire progetti a lungo termine: suona strano poi che la politica stessa si disperi per l’ inverno demografico e la denatalità.” Il precariato ha infatti l’effetto di creare un generale impoverimento dei più giovani, costringendoli a posizioni lavorative sempre più vulnerabili. Si è visto bene durante la prima ondata di Covid, quando gli effetti economici del lockdown hanno causato la perdita del maggior numero di posti di lavoro tra i giovani e le donne. “La manovra continua nel solco del Pnrr, dove giovani, donne e meridione sono stati considerati un tema trasversale. Le donne, ad esempio, non si capisce mai se siano donne o siano giovani. Le giovani donne in quale categoria ricadono? I giovani sembrano infatti sempre giovani uomini, mentre le giovani donne non esistono, diventano semplicemente donne. E in quanto tali destinate a lavori piccoli.”

Secondo Camussi, tuttavia, il problema di questa finanziaria non è solo strettamente economico, ma anche di impostazione: “Mi pare esista un problema a monte, che è sempre la mancanza di un disegno comune. Permane una frammentazione tra i diversi settori di intervento. Non trovo infatti da nessuna parte come questi diversi interventi stiano insieme in un progetto, che alla fine è un progetto di società. Forse perché questa è la parte davvero difficile, una visione della società che metta in primo piano le persone, i loro bisogni e desideri”.

Nella manovra, inoltre, non è contenuto nessun accenno all’istituzione di un salario minimo — la cui idea è già stata respinta dal governo Draghi negli scorsi mesi — e neppure delle misure per stimolare la crescita degli stipendi. Eppure l’Italia, insieme alla Grecia, è l’unico paese dell’Unione Europea in cui gli stipendi negli ultimi vent’anni non sono cresciuti. Un governo che si presenta come prestigioso a livello internazionale e che ha a disposizione una quantità di fondi mai vista prima come quelli arrivati con il Pnrr non poteva fare nulla per provare ad affrontare questo problema?

Il governo Draghi non ha rivoluzionato il sistema produttivo italiano, né le politiche attive per il lavoro. I provvedimenti della manovra continuano a proporre sgravi di assunzione alle imprese, come se gli introiti delle imprese aumentassero i benefici per tutti, che ricadrebbero a cascata anche sulla società. Come abbiamo visto, spesso questi sgravi fiscali non prevedono progettualità, ma si trasformano al massimo in contratti a tempo determinato. I profitti delle imprese sono un’ottima cosa solo per le imprese se non vengono in qualche modo condivisi. “Ragionando da psicologa sociale — spiega Camussi — a me sembra che sia la povertà del nostro sistema produttivo che genera questa distorsione. Per un verso promuoviamo l’eccellenza, dall’altra offriamo condizioni molto poco qualificanti, che è  possibile accettare solo se in qualche modo sento che la situazione sarà davvero temporanea, o se sono massimamente disperata. Pensando alle giovani donne e ai giovani uomini, è evidente come si viva da troppo tempo in questa pericolosa ambivalenza: raccontiamo che l’unico modo di essere è l’eccellenza, e poi il nostro livello produttivo e aziendale italiano non è — a parte pochi casi — un livello di reale eccellenza, come dimostra il basso tasso di impiego di laureati nelle le pmi italiane. In questo senso il modello di società che emerge da questa finanziaria e da questo governo è molto tradizionale, poco interessato a colmare realmente le disuguaglianze.”

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