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Lo rivelano nuove carte di un caso di antitrust del procuratore generale del Texas: le due aziende avevano un accordo per controllare il mercato alle spalle degli editori

Lo scorso dicembre il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, aveva annunciato che Google sarebbe stata coinvolta in un ennesimo caso di antitrust. Le indagini riguardavano il controllo quasi monopolistico che l’azienda di Mountain View esercita sulle tecnologie pubblicitarie. All’epoca le possibili infrazioni erano passate in secondo piano rispetto ai modi in cui Paxton aveva presentato la denuncia: un video trumpiano oltre il limite del grottesco, così eccessivo che si faceva fatica a prendere sul serio le accuse mosse dal procuratore generale. Prima di andare avanti, se non l’avete ancora visto o ve lo siete dimenticato, guardatelo due minuti:

La mossa dell’ufficio di Paxton arrivava mentre l’ostilità per i gestori delle piattaforme online diventava pienamente bipartisan ed era una delle accuse più “tecniche” e meno notiziabili di quelle di quei mesi. In realtà, di materiale che facesse notizia ce n’era molto, ma il documento firmato da Paxton era stato pesantemente censurato: proprio su richiesta di Google, secondo cui alcune di quelle informazioni, se fossero state rese pubbliche, avrebbero danneggiato l’azienda. La settimana scorsa, però, un ordine separato ha ordinato l’eliminazione delle censure, e ora il documento è consultabile nella sua interezza, con pochissime censure che riguardano quasi unicamente la privacy dei coinvolti nell’indagine.

Il documento completo elenca una miriade di comportamenti ai limiti della legalità e certamente anti-competitivi, che cerchiamo di riassumere.

  • Il 9 agosto 2019 Google, Apple, Amazon, Facebook e Microsoft si sono incontrate per accordarsi su una strategia per rallentare le leggi sulla privacy dell’Unione europea;
  • Google ha sviluppato un programma, noto come Jedi — ispirato dai “mind trick” dei personaggi di Star Wars — che gli permette di manipolare il mercato delle pubblicità in header bidding, una tecnica che permette agli editori di offrire il proprio inventario di spazi pubblicità a più ad exchange, in modo da ottimizzare i propri ricavi: in pubblico Google aveva più volte dichiarato di non temere la competizione che l’header bidding avrebbe portato nel mercato della pubblicità, ma all’interno dell’azienda ne parlava come di una “minaccia esistenziale.” Nella propria comunicazione interna Google invece descrive che il piano presentava “seri rischi di copertura mediatica negativa” se fosse stato reso pubblico.

Screenshot via Twitter

  • Nel marzo 2017 Facebook era scesa nel mercato dell’header bidding. Per Google si trattava di una minaccia considerevole. Le due aziende, dopo una trattativa a carte scoperte, sono arrivate a un accordo per dividersi il mercato: l’accordo prende nome dal precedente programma di Google — Jedi Blue.

Screenshot via Twitter

  • Google, nel frattempo, ha continuato a lavorare per mettere completamente sotto controllo il mercato della pubblicità, spingendo moltissimi editori ad adottare AMP, un framework HTML che avrebbe dovuto garantire maggiore velocità e migliori posizionamenti su Google. La tecnologia è stata adottata da tantissimi quotidiani e outlet, e ha una compatibilità limitatissima con l’header bidding. Nonostante Google promuovesse AMP, a porte chiuse ammetteva che un sito ben ottimizzato può andare più veloce della soluzione proposta proprio da Google stessa.

Screenshot via Twitter

  • La collaborazione di Google e Facebook, nel frattempo, si è fatta più ampia: nel contesto del programma Jedi Blue le due aziende hanno integrato i propri kit di sviluppo, in modo che Google potesse filtrare i dati di Facebook per confrontare i cookie, e permettere a Facebook di identificare gli utenti che usano browser che limitano il funzionamento dei cookie. In questo modo, le due aziende hanno collaborato per rendere inutili gli sforzi di Apple nel proteggere la privacy degli utenti che usavano Safari.
  • Per garantire di avere il massimo accesso ai dati dei propri utenti, Google ha prima introdotto prima e poi forzato sempre di più la funzionalità che permette agli utenti di loggarsi in Chrome. L’azienda, per aumentare il numero di utenti che utilizzavano la funzionalità, ha iniziato a forzare il login in Chrome di tutti gli utenti che avevano rifiutato di usarla, ma che poi si erano loggati nel browser a YouTube o a un altro dei servizi dell’azienda.

Screenshot via Twitter

Le rivelazioni del documento completo, insomma, sollevano preoccupazioni enormi sulla salute di internet e rivelano l’opinione di Facebook e Google degli editori e dei media outlet che operano in rete. L’uso dell’espressione Jedi, d’altronde, non potrebbe essere più chiaro: le due aziende hanno cercato in più modi di avvelenare un mercato di cui non avevano completamente il controllo, forzando la mano a editori e utenti, convincendoli con l’inganno ad adeguarsi a cambiamenti che erano solo a vantaggio delle due aziende.

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in copertina: CC-BY-SA 4.0 The Pancake of Heaven!