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I disturbi alimentari sono poco noti e poco capiti, soprattutto in Italia. Durante la pandemia il numero di casi è esploso ed è diventato ancora più urgente che vengano sbloccati i difficili accessi alle cure

L’8 ottobre piazza Castellani a Roma si è riempita di manifestanti che chiedevano al Ministero della Salute l’inserimento dei disturbi del comportamento alimentare (Dca) nei livelli essenziali di assistenza (Lea). “Non sapevamo quante persone sarebbero venute e alla fine la piazza era piena”, ha dichiarato Maruska Albertazzi, giornalista e regista del documentario sui Dca “Hangry Butterflies”. A organizzare il corteo è stata l’associazione “Mi nutro di vita”che dal 2011 si occupa della sensibilizzazione al tema. In Italia, i disturbi alimentari rimangono ancora ai margini del dibattito pubblico e continuano a essere gestiti nelle strutture sanitarie allo stesso modo degli altri disturbi mentali.Durante la pandemia i casi di Dca sono vertiginosamente aumentati tanto da parlare di “un’epidemia dentro l’epidemia”. È necessario per lo Stato riformulare le modalità di cura e prevenzione, puntando verso una trasversalità e interdisciplinarietà medica.

Il Ministero della Salute definisce i disturbi alimentari come “patologie complesse caratterizzate da un disfunzionale comportamento alimentare, un’eccessiva preoccupazione per il peso con alterata percezione dell’immagine corporea”. I più comuni – ma non gli unici – sono l’anoressia, la bulimia e il “binge-eating”, ovvero disturbo da alimentazione incontrollata. Il Ministero della Salute ha stimato che in Italia sono circa 3 milioni i soggetti affetti da disturbi alimentari, con 8500 nuovi casi all’anno. Di questi, il 95,9% è costituito da donne, ma negli ultimi anni il numero di uomini sta aumentando. La fetta di popolazione più colpita rimane comunque quella delle ragazze, in cui i Dca rappresentano addirittura la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali (Sisdca).

Con il lockdown, i casi di Dca hanno subito un boom. L’isolamento ha portato infatti all’esplosione di disagi psicologici in precedenza latenti che si sono acuiti e manifestati in disturbi del comportamento alimentare. Altri fattori scatenanti sono stati il cambiamento della routine quotidiana e dell’organizzazione dei pasti e un maggiore utilizzo dei social media – dove ideali sociali della magrezza e pagine pro-ana (che istigano all’anoressia) raggiungono gli utenti più giovani. Come dichiarato da Maruska Albertazzi, “l’incremento stimato dei casi di Dca in Italia dopo la quarantena nazionale è del 30%, l’aumento però registrato nelle richieste di prima visita nella Asl Roma 1 nei quindici mesi successivi al lockdown è stato del 230%. Se prima ricevevano una/due persone a settimana, ora devono vederne cinque/sei. Come fa una struttura a cui non viene aumentato ilpersonale, a cui non vengonoaumentate le risorse, a gestire un aumento così esponenziale di casi, se già prima era in sofferenza?”

I disturbi alimentari sono poco noti e poco capiti. I Dca vengono infatti spesso percepiti come capricci o fasi transitorie. Così, quando un figlio manifesta dei sintomi, i genitori, solitamente impreparati, non sanno bene come muoversi né a che figure professionali rivolgersi. “I familiari si trovano completamente soli nel tentativo di capire cosa devono fare”, afferma Maruska Albertazzi, “vengono aiutati principalmente dalle associazioni, che svolgono un’attività di indirizzo, un po’ come faccio anche io. Ma puoi indirizzarli solo se la regione ha una struttura dove accoglierli.”

In Italia il numero di posti di ricovero disponibili è molto basso. E le poche strutture di riabilitazione e i reparti ospedalieri dedicati sono concentrati soprattutto nel Nord e nel Centro Italia, con la conseguenza che molti genitori si trovano costretti a trasferire i figli fuori regione (ovviamente a proprie spese). “Quando si tratta di una ragazza o un ragazzo minorenne”, continua Albertazzi, “chiaramente uno dei due genitori lo deve seguire negli spostamenti. Ci sono state madri che hanno dovuto lasciare il marito a lavorare in Puglia, hanno portato con sé il fratellino piccolo e sono salite in Emilia Romagna, dove hanno dovuto prendere un appartamento per non lasciare sola la figlia ricoverata. Sono situazioni molto gravi. La famiglia, già provata psicologicamente, così si disgrega.”

L’eterogeneità nella distribuzione delle strutture a livello nazionale è data soprattutto dalla mancanza di una legislazione specifica comune che ne regoli l’organizzazione. Le regioni si trovano quindi a muoversi autonomamente, con una conseguente differenza nell’erogazione dei servizi e ritardo nell’accettazione dei casi. 

L’organizzazione dei ricoveri spetta all’Asl della propria città, che però spesso stenta ad autorizzare la richiesta per casi non gravi. I costi per la sanità pubblica sono molto elevati, soprattutto se si rende necessario un trasferimento in un’altra regione. Come evidenziato da uno studio del 2011 pubblicato nel Giornale Italiano di Psicopatologia, il costo di un ricovero per disturbo alimentare in media è di 9.441 euro, mentre la struttura pubblica relativa riceve un rimborso dal Servizio sanitario nazionale attorno ai 2 mila euro.

Nell’attesa di un posto in una struttura di riabilitazione, alcuni pazienti vengono ricoverati in reparti psichiatrici, inadeguati alla cura, o addirittura rischiano di morire prima di essere ammessi. Questo perché, all’interno dei Lea, i disturbi alimentari rientrano nella categoria dei disturbi mentali, nonostante i numeri dimostrino che andrebbero separati come emergenza socio-sanitaria a sé stante. “I Dca sono giustamente inseriti nelle malattie psichiatriche perché si tratta comunque di tali”, afferma Albertazzi, “vanno tuttavia trattati diversamente non solo per epidemiologia ed eziologia ma anche per il tipo di cure che si rendono necessarie. Sono disturbi che non prevedono lo stesso trattamento terapeutico: chi ha un disturbo alimentare ad oggi viene messo in reparto solo quando è grave e ha bisogno di un ricovero. Negli ospedali non esistono ricoveri appositi per i disturbi alimentari. Sono letti che vengono presi da psichiatria o da medicina interna, quando va bene da malattie metaboliche. Ma si tratta comunque di reparti a cui manca un certo aspetto della cura adeguata ai disturbi alimentari. Quando i pazienti con Dca vengono ricoverati in psichiatria ovviamente c’è un problema enorme. Da quel ricovero non ne può uscire niente di buono, è proprio un altro tipo di malattia. La cura dei disturbi alimentari va scorporata da quella delle malattie mentali perché si tratta proprio di due approcci diversi.” Nel trattamento di Dca non sono infatti coinvolti unicamente psicologi e psichiatri, ma anche molti altri specialisti, come dietisti, endocrinologi e cardiologi. 

Se i Dca venissero aggiunti alla lista dei livelli essenziali di assistenza separatamente dai disturbi mentali, i pazienti potrebbero ricevere delle cure adeguate, disponendo di fondi sufficienti e strutture specializzate in ogni regione. L’intervento risulta fondamentale ora più che mai, visto l’esponenziale aumento di casi dopo il lockdown nazionale. Il Ministero della Salute ha accettato di tenere un tavolo tecnico con le associazioni per discutere del piano da attuare. Le voci di piazza Castellani potrebbero quindi ottenere l’eco desiderata.

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