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Anche in una produzione con un cast corale che comprende alcune delle stelle più affermate di Hollywood sono i dettagli a fare la differenza. Denis Villeneuve lo sa benissimo e in Dune ha dimostrato di aver appreso la lezione di Pierre Perrault, uno dei padri del cinema canadese

Questo articolo contiene spoiler del finale di Dune.

Affrontare per una seconda volta le tre ore (155 minuti) di Dune — ultima fatica del regista canadese Denis Villeneuve — non è decisione facile. Per quanto ritmata possa essere la narrazione del film e confortevoli le sedute del cinema, non è certo per vezzo che si dedicano ore della propria giornata a una seconda visione. Significa che qualcosa è penetrato a fondo la prima volta, imprimendo la propria traccia nella retina. Unico modo per sbarazzarsi della permanenza è affrontare tutto da capo, cercando di ritrovare quel dettaglio — apparentemente poco rilevante — che a distanza di giorni galleggia ancora nel proprio inconscio cinematografico.

Da qui iniziano gli spoiler, proseguite solo se avete già visto Dune o se non vi disturba sapere in anticipo dettagli sulla trama.

In un’altra ora e quarantacinque minuti la casata Atreides è di nuovo caduta nelle macchinazioni dell’Imperatore, gli Harkonnen hanno ripreso il controllo di Arrakis dopo aver ucciso il Duca Leto, mentre Paul e Jessica sono sfuggiti alle grinfie della casata avversaria cercando rifugio nel deserto. I due sopravvissuti vengono accolti in un rifugio Fremen da Liet-Kynes — interpretata dalla credibilissima Sharon Duncan-Brewster — ecologista imperiale e arbitro del cambio addetta alla supervisione del pacifico trasferimento di potere tra le due casate rivali. Il film si appresta finalmente a spostare il proprio potenziale narrativo nel deserto.

È a questo punto del film che Villeneuve, con l’esperienza registica che ormai lo contraddistingue, ci guida in una breve ma potente esplosione sensoriale. All’interno del rifugio Fremen, ormai assuefatti alla desaturazione delle brulle scogliere di Caladan e delle aride superfici della cittadella di Arrakis, lo sguardo viene invece scosso dalla visione di un piccolo laboratorio botanico. L’inquadratura ci mostra un fascio di luce piovere su alambicchi di vetro e vasi da cui fuoriescono timide, succulente edere e piccoli ciuffi di un verde acceso. Con un rapido stacco il regista canadese ci spinge ancora più vicino ai soggetti: un dettaglio ristretto ci porta dentro le delicate ramificazioni di quello che sembra essere un albero di giada, pianta tipica delle zone desertiche.

Così, in una pellicola riarsa dalla costante assenza di verde, noi spettatori veniamo catapultati in un’estasi clorofilliana. La vista accarezza nuovamente le tonalità brillanti, il tatto sembra percepire la materia organica e l’olfatto torna per un attimo a cogliere l’umido sentore di vegetazione. Solo pochi frames, prima che una squadra di Sardaukar facciano irruzione nel rifugio, rigettando tra le dune i protagonisti della storia.

Seppur breve, la visione del regista è dettata dal desiderio di espandere sensorialmente la traccia originale del testo, in cui Frank Herbert si era invece limitato a distinguere l’aspetto grezzo del laboratorio dagli alti palazzi delle casate.

“Jessica si guardò intorno ancora una volta, registrando l’ambiente con tutti i suoi sensi. Un laboratorio, un luogo pieno d’angoli e di spigoli all’antica maniera. […] Paul, come sua madre, ispezionò la stanza con lo sguardo, registrandola: vide il banco da lavoro lungo una parete, i muri rozzamente squadrati. Vi erano strumenti allineati sul banco: quadranti luminosi, separatori elettrostatici tubolari dai quali uscivano steli di vetro scanalato. Percepì un forte odore di ozono.” 

(da Dune di Frank Herbert, traduzione di Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli, Sperling & Kupfer, 1999)

Le immagini proposte dal regista non sono banali e ricadono in uno schema cromatico ed estetico ormai collaudato dai suoi film precedenti. Villeneuve — aiutato da professionisti come il direttore della fotografia Roger Deakins — ha infatti migliorato nel tempo la capacità di dialogare con gli spettatori attraverso l’incisività e la fluttuazione dei colori. Come ha dichiarato in una lunga intervista rilasciata in occasione del Shanghai International Film Festival: “Uno degli elementi chiave per tenere alta la tensione, è portare sullo schermo qualcosa che colpisca il subconscio degli spettatori, un elemento che porti realtà. Può essere la luce, può essere una pianta, qualsiasi cosa che dia all’inquadratura l’effetto che hai quando in sogno ti appare qualcosa che sembra vero.” Rapidi inserti come quello del laboratorio sono dunque fondamentali per il lavoro dell’immagine sul subconscio del pubblico. In pochi secondi i contorni fantascientifici di Dune sfumano verso la realtà del nostro pianeta, ricordandoci che le immagini proposte altro non sono che lo specchio di un futuro che ci apprestiamo a vivere

https://www.youtube.com/watch?v=JIdV7AWd3ns

Intervista a Denis Villeneuve per il Shangai International Film Festival 

L’attenzione documentaristica che Villeneuve mette in campo nella scena del laboratorio sembra richiamare le immagini di Pierre Perrault, regista poco conosciuto fuori dai confini canadesi ma figura di rilievo della cinematografia nazionale. I documentari di Perrault (tutti disponibili sul portale dell’Office National du Film du Canada), oltre ad avere un alto valore antropologico, spesso rivolgono la loro attenzione a dettagli paesaggistici come piante, animali, terreni, ruscelli, che invadono l’inquadratura a distanze molto ravvicinate. Elementi indagati attraverso la macchina da presa con una tale profondità che spesso ci sembrano provenire da un’altro pianeta.

Immagini tratte dal documentario “Cornouailles” (1994)

Villeneuve — che da Perrault ha sicuramente imparato a trattare con rispetto gli ambienti delle proprie storie — sfrutta un elemento di contorno per elevare l’intero film, e lo fa al momento giusto, quando l’inconscio collettivo della sala ha bisogno di una scossa, di uno respiro sugli eventi interni ed esterni alla narrazione.

La visione dell’albero di giada, che su quasi tre ore di durata della pellicola occupa a malapena una decina di secondi, è l’immagine per cui ricorderò l’adattamento di Dune fatto da Villeneuve. Un invito a osservare gli ambienti che abitiamo, non con distacco, ma con uno sguardo immerso.

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in copertina, foto © 2021 LEGENDARY / WARNER BROS. ENTERTAINMENT