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Domani si terranno i ballottaggi in 65 comuni italiani. Un DPR del 1967 impone che le file al seggio siano divise per genere. La campagna “Io Sono, Io Voto”, lanciata nel 2020 da Gruppo Trans, prova a superare la discriminazione imposta da questa disposizione

Negli scorsi giorni 1.157 comuni italiani sono stati impegnati nelle elezioni amministrative, con un’affluenza più bassa rispetto alle comunali precedenti (2016).  In molti casi, come accade spesso quando il corpo elettorale è chiamato a votare, l’accesso ai seggi prevedeva una distinzione netta in donne e uomini. In alcuni casi i registri erano addirittura diversificati utilizzando il rosa per il registro femminile e l’azzurro per quello maschile.

Sono state molte le personalità della politica e dell’attivismo, colpite in prima persona o semplicemente sensibili alla questione, che hanno evidenziato come la distinzione per genere sia una discriminazione delle persone trans e non binarie. Mettersi in fila in base al genere assegnato alla nascita costringe, nei casi in cui esso non corrisponde alla propria identità o espressione di genere, a un coming out forzato. Si possono verificare situazioni di disforia e di tensione, spesso i dati personali vengono letti ad alta voce e si viene esposti a una situazione di rischio. Sono tutti casi riportati dall’associazione Gruppo Trans, che si occupa di fornire strumenti concreti per modificare l’accesso ai seggi suddiviso in donne e uomini e di sostenere tutte le persone discriminate. 

Qual è però l’origine di questa disposizione, che è distintiva dell’assetto legale italiano, ma che, per motivi oscuri, viene applicata in alcuni comuni mentre in altri no? La distinzione in donne e uomini è disciplinata dall’articolo 5 del DPR (Decreto del Presidente della Repubblica) n° 223 del 20 marzo 1967, nel quale si legge che “Le liste elettorali, distinte per uomini e donne, sono compilate in ordine alfabetico in doppio esemplare, e indicano per ogni iscritto” una serie di dati tra cui “il cognome e nome e, per le donne coniugate o vedove, anche il cognome del marito.” Già solo che venga richiesto il cognome del marito per le donne coniugate o vedove indica con chiarezza quanto sia anacronistico il quadro legale italiano, che disconosce quasi sistematicamente le famiglie e le identità di genere non tradizionali.

La disposizione, però, è applicata solitamente solo nei casi in cui è difficile gestire il flusso delle persone che si recano alle urne. Nei piccoli comuni basta un’unica fila. In altri stati, invece, questa distinzione non c’è e si accede al voto attraverso dei registri suddivisi in scaglioni dell’ordine alfabetico.

Per contrastare l’uso discriminatorio di queste disposizioni, già da diverse tornate elettorali ai seggi si vedono richieste di verbalizzazione di dichiarazioni di protesta. Un modello utile è stato elaborato proprio dall’associazione Gruppo Trans, che consiglia però di portarlo nella sede della votazione già redatto e firmato, perché si sono verificati dei casi in cui chi presiede il seggio ha cercato di opporsi a questa iniziativa. 

La formula proposta specifica che si considera la suddivisone per genere o sesso “discriminatoria e lesiva nei confronti delle persone trans, di genere fluido, non binarie, o di tutte le identità che non si riconoscono nella dicotomia uomo-donna e che non vengono pertanto considerate e rispettate nella propria autodeterminazione”. Sono citati gli estremi normativi della disposizione e si evidenzia che questa distinzione genera la “possibilità di divenire bersaglio di ostilità, discriminazioni, violenza in virtù della propria identità di genere”.

Fino a che il DPR non viene modificato, però, si può agire in due modi. Da un lato sensibilizzando chi presiede e coordina il seggio elettorale, che deve diventare consapevole dell’impatto della divisione in uomini e donne e delle strategie migliori per ridurlo davanti a chi ne è discriminato. Dall’altro dare sostegno alle persone trans e non binarie che vogliono esprimere il proprio voto. È ciò che fa il Gruppo Trans con il progetto “Io Sono, Io Voto”. A partire dallo scorso anno sul territorio nazionale e dalle amministrative del 2016 a livello locale (Bologna), si è attivata una rete di volontarie e volontari che accompagnano ai seggi chi non vuole affrontare il coming out in solitaria.

“Con l’accompagnamento viene gestito meglio il coming out perché si fa da contraltare alla situazione uno contro tanti (l’intero seggio) vissuta dalla persona discriminata” spiega Andrea Ruggeri, membro dell’associazione. “Questa suddivisione è obsoleta e non aiuta l’organizzazione del seggio. In alcuni momenti la fila delle donne è piena e quella degli uomini vuota o viceversa. Ma soprattutto comporta la violazione dei diritti umani e la discriminazione di chi vota. Va a ledere il diritto di voto”. Questa suddivisione, infatti, espone a situazioni di forte imbarazzo, disforia, stigma e aggressività. “È capitato anche che il presidente chiamasse i carabinieri perché i documenti non corrispondevano all’aspetto persona che aveva davanti” racconta Ruggeri, “Si pensa addirittura prima a un criminale che a una persona trans. Siamo invisibili”.

Un atteggiamento che invece di muoversi nella direzione dell’empatia e del rispetto va verso lo scontro non solo è discriminatorio, ma lede anche il diritto di voto previsto dall’articolo 48 della Costituzione. Se si ha un’esperienza negativa durante le elezioni, si è meno incoraggiati a votare di nuovo. “Non ci sono però le statistiche su come questa situazione incida sul diritto di voto” spiega Ruggeri, sottolineando quindi quanto sia difficile da analizzare. Eppure le testimonianze in questo senso non mancano e dovrebbero spingere verso la modifica di un accesso ai seggi per genere: “In questi anni, ogni volta che si è presentata l’occasione di esprimere il mio parere di cittadino recandomi alle urne ho vissuto un’esperienza spiacevole, umiliante e altamente stressante, che ha inibito la mia determinazione a continuare a esercitare questo mio diritto e dovere”.

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in copertina, rielaborazione foto via Twitter @Roma