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tutte le foto: Yed Giordano Viganò

20 mila persone hanno protestato contro le delocalizzazioni a Firenze, ma Landini e Orlando hanno preferito partecipare a un dibattito sul green pass a Empoli

Ieri a Firenze si è tenuta la manifestazione di sostegno ai 422 lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio, a rischio di licenziamento in seguito a una decisione presa dall’azienda per massimizzare i propri profitti. Al corteo hanno partecipato circa 20 mila persone e ha visto la partecipazione di praticamente tutte le sigle politiche e sindacali a sinistra del Pd. In testa al corteo si sono viste le bandiere partigiane dell’Anpi locale e il noto striscione “Insorgiamo!” — che è diventato il motto della manifestazione. Ma alla manifestazione hanno soprattutto partecipato altri lavoratori, molti dei quali hanno visto il proprio posto a rischio dalla crisi pandemica e dallo sblocco dei licenziamenti.

In settimana verrà emessa la sentenza sul ricorso per comportamento antisindacale avanzato nelle scorse settimane dai sindacati confederali. Secondo il segretario della Cgil Landini — che ieri ha peraltro ritenuto più costruttivo partecipare insieme al ministro del lavoro Orlando a un dibattito sul green pass a Empoli, poco distante da Firenze — la Gkn si sarebbe “mossa al di fuori della legge.” Molti striscioni ieri invocavano lo sciopero generale, ma questa proposta non sembra essere all’ordine del giorno per i leader della Cgil. Vista la passività dei sindacati confederali e il disinteresse del governo, la via giudiziaria potrebbe essere l’unica per fermare concretamente i licenziamenti in arrivo.

Orlando vorrebbe introdurre anche in Italia una legislazione simile alla legge Florange promulgata nel 2014 in Francia per limitare le delocalizzazioni delle multinazionali. Da quando il 1° luglio il governo ha fatto cadere il blocco dei licenziamenti, proprio come lungamente richiesto da Confindustria, l’esecutivo ha scoperto che le aziende hanno in effetti cominciato a licenziare. Lo scorso luglio, nonostante la ripresa economica, si sono registrati 23 mila occupati in meno rispetto al precedente mese di giugno. Molte volte, i licenziamenti a cui si è assistito questo mese non si sono verificati in aziende in crisi: hanno piuttosto coinvolto stabilimenti e marchi che erano interessati a delocalizzare la produzione altrove.

Ma la proposta allo studio del governo — nonostante abbia fatto arrabbiare Confindustria — sembra estremamente blanda. Le aziende dovrebbero sostanzialmente essere costrette a comunicare ogni scelta alle istituzioni con largo anticipo — si parla di 6 mesi — e di redigere obbligatoriamente un piano di reindustrializzazione prima di chiudere, oltre a convocare automaticamente un tavolo istituzionale e a cercare per almeno 3 mesi un eventuale compratore. Se nei precedenti 5 anni le aziende avessero ottenuto finanziamenti pubblici, dovrebbero restituirli con gli interessi. Da nessuna parte però c’è scritto che si impedirà fisicamente alle aziende di delocalizzare — e si è visto con il blocco dei licenziamenti cosa se ne fanno le aziende dei disincentivi e dei concordati. Le bozze del provvedimento inoltre sembrano riguardare solo le aziende con più di 250 dipendenti.

La stessa legge Florange francese del 2014 da cui vorrebbe prendere ispirazione si è rivelata poi inefficace ed è nota soprattutto per come le aziende riescano frequentemente ad aggirarla. Lo aveva riconosciuto lo scorso novembre anche l’allora ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli: “Ha avuto un impatto veramente limitatissimo. Lo sforzo che viene chiesto all’imprenditore è di provare per sei mesi a trovare un’alternativa. Se non la trova, dopo i sei mesi di impegno non succede nulla. In realtà la penalizzazione del 2 per cento del fatturato avviene soltanto se si rifiuta di tentare di trovare una soluzione alternativa alla delocalizzazione.”

Per tutta risposta, le lavoratrici e i lavoratori della fabbrica toscana hanno elaborato una proposta di integrazione più dura ai lavori per la legge per fermare le delocalizzazioni — il primo punto recita che “a fronte di condizioni oggettive e controllabili l’autorità pubblica deve essere legittimata a non autorizzare l’avvio della procedura di licenziamento collettivo da parte delle imprese.” Il collettivo della fabbrica fa notare che “Delocalizzare un’azienda in buona salute, trasferirne la produzione all’estero al solo scopo di aumentare il profitto degli azionisti, non costituisce libero esercizio dell’iniziativa economica privata, ma un atto in contrasto con il diritto al lavoro, tutelato dall’art. 4 della Costituzione.”

Il collettivo di fabbrica è deciso a proseguire la mobilitazione per salvare i posti di lavoro. In un’intervista della scorsa settimana all’amministratore delegato di Gkn Italia, Andrea Ghezzi, si capiscono bene le priorità dell’azienda. Ghezzi ha provato a difendersi dall’accusa di aver licenziato 422 persone con metodi spicci e aver intenzione di delocalizzare la produzione. Ghezzi sostiene che “le valutazioni che hanno portato alla chiusura sono conseguenza di dinamiche di mercato che, per loro stessa natura, hanno ripercussioni sull’intero gruppo. A luglio, sulla base di proiezioni oramai attendibili dopo oltre un anno di incertezza, abbiamo dovuto prendere atto del fatto che tali dinamiche, unitamente alle azioni che il gruppo e le varie consociate stavano adottando per farvi fronte, ci avrebbero portato nel breve-medio periodo ad una situazione peggiore e di definitiva insostenibilità. La chiusura è stata una decisione conseguente e inevitabile,” dichiarando che “Non torneremo però indietro sulla decisione e agiremo secondo legge per attuare la chiusura aziendale.”

Sarà un autunno intenso, con molte vertenze e questioni aperte sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico. Il cui ministro Giorgetti, però, come riporta il Fatto Quotidiano, sembra essere molto poco interessato a difendere i lavoratori — il segretario della Uilm Rocco Palombella ha dichiarato che “C’è un’assenza politica, quella di Giancarlo Giorgetti, incontrovertibile. Qualcosa che sfiora la delegittimazione sindacale. Siamo quasi ignorati.” Ci sono circa 100 tavoli aperti al Mise, ma “Le difficoltà a risolvere le crisi ci sono sempre state, ma ci si parlava e confrontava. Ora invece si prendono impegni, ma cadono nel nulla. La situazione è drammatica.”

La situazione, nei prossimi mesi, potrebbe peggiorare: è molto preoccupante, infatti, il comportamento di Stellantis — il gruppo erede della Fiat, che include l’azienda torinese e le controllate statunitensi. All’inizio di agosto, Stellantis ha deciso di rimborsare il credito da 6,3 miliardi di euro emesso da Intesa Sanpaolo con una garanzia statale sull’80% dell’importo. La compagnia ha potuto farlo grazie a una nuova linea di credito di 12 miliardi di euro sottoscritta da un consorzio internazionale di 29 banche, che gli ha consentito di sbarazzarsi dell’ingerenza dello stato nel prestito precedente, che aveva peraltro sollevato molte polemiche. Come mai a Torino è stata presa questa decisione, visto che il nuovo prestito pagherà interessi più alti ai nuovi creditori?

Chi vuole pensar male ritiene che il motivo principale dietro a questa mossa di Stellantis sarebbe un’eventuale voglia di licenziare. Tra le clausole del prestito stretto con Intesa Sanpaolo, infatti, c’era anche l’impegno a non licenziare durante il finanziamento e investire sulle attività italiane, senza delocalizzare. E non è un mistero che il gruppo, se potesse, sposterebbe diverse delle sue attività produttive in altri paesi per tagliare i costi della manodopera. Uno degli stabilimenti più critici sotto questo punto di vista, ad esempio, è quello Sevel della Val di Sangro, in Abruzzo, dove il gruppo produce il Fiat Ducato. In Abruzzo il gruppo impiega 5.650 operai, più 700 somministrati e altri 500 in trasferta temporanea da altri impianti. Nelle scorse settimane sulla Val di Sangro sono aumentate le preoccupazioni sul futuro del sito produttivo. Tanto per cominciare, Stellantis sta sviluppando una fabbrica “gemella” di quella della Val di Sangro in Polonia. Inoltre, l’attività nella fabbrica langue: l’azienda ha decretato l’interruzione della produzione fino al 13 settembre, sostenendo che la mancanza di microchip degli ultimi mesi — un problema effettivamente mondiale — impedisca il normale svolgersi dell’attività. Il 7 settembre l’Ad di Stellantis, Carlo Tavares, ha visitato lo stabilimento, nel tentativo di smentire le voci su una possibile delocalizzazione dell’impianto. Ma i sospetti continuano.

Spesso le delocalizzazioni vengono messe in atto non perché gli stabilimenti in sé vadano male, ma per massimizzare i profitti delle aziende e di chi le controlla.

Riello — azienda del settore della climatizzazione che fa parte del gruppo multinazionale Carrier — ha annunciato la scorsa settimana chiusura dello stabilimento di Villanova di Cepagatti, in provincia di Pescara, per delocalizzare la produzione nel Nord Italia e in Polonia. L’azienda ha avviato quindi la procedura di licenziamento per 71 dipendenti, e lo spostamento di 19 addetti alla ricerca e sviluppo nella sede di Lecco e Legnago. Per i sindacati la chiusura è “incomprensibile” ed è “piovuta come un fulmine a ciel sereno nell’anno dell’Ecobonus caldaie.”

A Ceriano Laghetto, intanto, si fanno i conti con una vertenza già andata male: la proprietà della Gianetti, dopo non essersi smossa dalla propria posizione e aver sottomesso governo e sindacati, potrebbe far partire già oggi le 152 lettere di licenziamento ai lavoratori. “Ci hanno preso in giro tutti. L’unico che ha fatto quel che ha detto fin dall’inizio è stato l’amministratore. Voleva chiudere e ha chiuso, fregandosene di tutto e di tutti.” Ieri in fabbrica si parlava di mobilitazione immediata, poi è prevalsa una linea più morbida con la richiesta di una conversazione urgente al Mise. A proposito: il Mise il 4 agosto aveva promesso ai lavoratori che sarebbero stati convocati nel giro di poche ore. Ovviamente non è mai stato convocato nessuno. Lo scorso 11 luglio, fuori dai cancelli della Gianetti, avevamo assistito al comizio del segretario della Cgil Landini, che aveva cercato di rasserenare gli animi. A questo punto, si può dire che Landini abbia avuto torto a cercare di calmare i lavoratori che quel giorno chiedevano una lotta più dura contro i padroni dell’azienda.

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