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in copertina, foto gentile concessione Tempi diVersi

La riqualificazione promossa da chi governa la città sta cancellando progressivamente la memoria storica, urbanistica e architettonica di Milano, ed evita il confronto con i cittadini

Si trovava lungo la direttrice di una scorciatoia per giungere dal Piazzale Cadorna a via Dante, in pieno centro. Sulla sinistra, oltrepassata la statua di Nelson Mandela posta davanti al consolato sudafricano, sorgeva l’anfiteatro, in larga parte ormai inghiottito dall’edera, di fronte alla chiesa ortodossa, la chiesa più “corta” di Milano, avvolto da un silenzio insolito per la zona. Dopo quasi quarant’anni, il lungo e costante processo di erosione milanese l’ha travolto, con la demolizione iniziata in sordina il 7 maggio scorso. Ne abbiamo parlato con Danilo Pasquini, architetto incaricato a metà anni Ottanta del ripensamento dell’area all’incrocio tra via Porlezza e via Giulini, padre della struttura che ormai non esiste più. “Fui chiamato all’inizio del gennaio dell’1985 da una società che avrebbe dovuto mettere in atto un accordo con l’amministrazione comunale di Milano — all’epoca il sindaco era Aniasi. Si trattava di studiare il riordino sostanziale di un’area in centro città, reliquato di un cantiere edile con il quale era stato ricostruito ex novo un edificio distrutto dai bombardamenti del 1943.” 

Il contesto

Nel 1925 — quando nella sala del vicino cinema Dante si inauguravano le proiezioni mute con Aquila nera, accompagnate in lontananza dal suono dei pianoforti Colombo, costruiti nella stessa via Porlezza — viveva una Milano che non sapremmo ricordare senza qualcuno che l’abbia vissuta in prima persona a raccontarcela. In parte perché quella Milano fu bombardata, distrutta e ricostruita diversamente. La fabbrica dei piccoli pianoforti in abete a intelaiatura metallica chiuse i battenti ben prima del secondo conflitto, nel ’32, mentre il cinema venne demolito nel ’61.

Con il boom economico e la costruzione di vasti quartieri residenziali e popolari ai margini delle città, nascevano le periferie come le conosciamo oggi, e con loro la corsa alla ricostruzione nelle grandi città italiane, all’insegna di “nuove forme di un’architettura tesa all’innovazione e alla celebrazione della collettività in netto contrasto con lo spirito del passato [del regime fascista, ndr].”

Ma tra la Milano del dopoguerra e la Milano da bere degli anni Ottanta — quella del manifesto pubblicitario dell’Amaro Ramazzotti, partorita per un caso bizzarro contestualmente all’anfiteatro — il passo non è breve: di mezzo ci furono il ‘68 prima e i cosiddetti anni di piombo poi, conficcati nella carne viva del Paese, ancora martoriata dalle bombe e dall’eco della guerra nella memoria collettiva recente. 

Gli anni Ottanta: la costruzione dell’anfiteatro 

foto Paolo Cerruto

Negli anni Ottanta, con la disaffezione per politica e partiti, il cambio delle priorità determinava l’ascesa dell’impero della pubblicità e della televisione commerciale. La condivisione non era più impegno sociale ma disimpegno, il feticcio non era più la rivoluzione ma il benessere individuale, privato. 

In questo nuovo scenario si colloca il progetto e la costruzione dell’anfiteatro Porlezza a Milano, luogo insolito travestito da luogo qualunque in pieno centro, pensato come luogo di condivisione all’aperto in una zona in cui i luoghi della cultura, anche fuori dai salotti, erano chiusi e delimitati: “Incrementare la possibilità d’incontri culturali mi veniva da un’esperienza basata sulla necessità della diffusione della cultura nelle periferie di Milano, esperienza che fu esercitata personalmente nei primi anni ’70 in collaborazione con il Piccolo Teatro di Paolo Grassi, il Comune, i Consigli di Zona (oggi Municipi) con una forma di spettacolazione itinerante detta Teatro Quartiere che veniva ospitato dalla famiglia Medini sotto il proprio tendone in diversi quartieri della città,” continua l’Architetto Pasquini che, riguardo il suo progetto in parte controtendenza in una Milano che voleva con ogni forza guardare al futuro piuttosto che al passato, conclude: “La scelta di costruire in quel luogo un anfiteatro mi venne dall’esame della storia della città e della presenza, in prossimità nell’area a sud occupata oggi dalla Borsa, del Teatro Romano, all’epoca della Milano capitale dell’Impero Romano, dal 300 al 400 d.C.”

Gli anni Novanta: il tracollo

foto Paolo Cerruto

Dopo lo scandalo di Mani Pulite che vide coinvolto anche l’ampio panorama della grande edilizia milanese a cominciare da Ligresti, e con il tracollo generalizzato degli anni Novanta, Milano sembrava — ancora una volta — sempre più decisa a rinnovare, ricostruire e spesso demolire la sua memoria. Una pratica sopravvissuta nel tempo dietro un termine onnicomprensivo, riqualificazione, che negli ultimi anni è stato particolarmente inflazionato e prediletto dall’assessore all’urbanistica del Comune di Milano Pierfrancesco Maran. Gli abbiamo chiesto maggiori informazioni e spiegazioni in merito a criticità e zone d’ombra attorno alla demolizione dell’anfiteatro, ma ha rifiutato la nostra richiesta d’intervista. Lo stesso ha fatto poi il sindaco Giuseppe Sala.
“36 anni sono passati da quella esperienza che credo importante per tutte le persone che ne hanno potuto fruire: negli intervalli di pausa pranzo o per leggere un libro in tutta tranquillità, per esporre opere e oggetti in modo spontaneo o con sfilate vere e proprie, per sedere all’ombra, parlare con interlocutori anche sconosciuti, leggere poesie consapevoli di essere parte di una comunità che accoglie il pensiero e le opere di ognuno”, racconta Pasquini. “Gli anni Settanta e Ottanta erano i tempi nei quali Milano cresceva, produceva e dava speranza a tutti, e tutti potevano parlare e interloquire con i loro amministratori, dal sindaco agli assessori ai funzionari: il consiglio comunale era aperto e si poteva assistere alle sedute, trovando anche in quel luogo temi, problemi, obiettivi che si potessero perseguire e gestire dal basso per il bene della città.”

Oggi

foto Mimmo Torchia

Negli ultimi anni l’anfiteatro di via Porlezza era rimasto pressoché inutilizzato, fatta eccezione per la presenza sporadica di comitive e gruppi di ragazzi per cui era diventato luogo di ritrovo serale. Le iniziative più recenti che avevano interessato lo spazio, permettendo anche a molti di scoprirlo per la prima volta, sono certamente quelle del collettivo Tempi diVersi, che dal 2013 organizza gratuitamente letture di poesia e piccoli spettacoli teatrali e musicali in giro per la città. Tramite iniziative come il “saluto alle cabine telefoniche in via d’estinzione” o la camminata tra i monumenti del centro, il gruppo di ragazzi cerca di ridare voce alle aree più dimenticate — sia per abitudine, sia per vero e proprio abbandono — della città, avvicinando inoltre centinaia di giovani alla poesia e alla musica. 

“Diverse volte ci siamo appoggiati al magnifico anfiteatro di via Porlezza,” racconta Paolo Cerruto, tra i fondatori del collettivo, “un piccolo gioiello di senso e partecipazione nella desolazione urbanistica, a livello di socialità notturna, del centro città. L’acustica perfetta amplificava la voce di chi parlava al centro della scena, permettendo di sentire bene da qualsiasi angolazione. Dalle finestre circostanti, anche quando finivamo a mezzanotte, non è mai arrivata alcuna lamentela. Abbiamo chiesto spiegazioni al Comune in merito alla demolizione, interpellato anche tramite PEC spedite da un avvocato, e dopo due settimane non abbiamo ancora ricevuto alcuna risposta. Il progetto presentato da Maran prevede un’anonima piazzetta con due alberi e panchine, che dice co-progettata insieme ai residenti: ma quelli incontrati durante i nostri presidi davanti al cantiere della demolizione erano ignari e dispiaciuti. Ci piacerebbe avere un confronto con i fautori della distruzione, per spiegar loro le nostre ragioni e condividere una riflessione su uno spazio che è di tutti i cittadini. Vogliamo che il nuovo progetto venga messo in discussione e che vengano prese in considerazione le nostre voci, quella dell’architetto che costruì questo spazio e quelle di nuovi architetti e urbanisti che su questo luogo hanno ideato progetti di restauro e rigenerazione all’avanguardia, con grande attenzione al contesto. Chiediamo un nuovo anfiteatro che permetta alla cittadinanza di organizzare eventi culturali dal basso, all’aperto. Vogliamo più spazi disegnati per unirci e condividere esperienze al di fuori del consumo, esigiamo che la città ci offra piazze come spazi di confronto ed espressione.” Tempi diVersi sta lavorando in queste settimane a un documentario video, un montaggio dei due presidi organizzati a seguito della demolizione in via Porlezza, cui hanno partecipato dando il proprio sostegno lo scrittore Antonio Moresco, l’attore e regista Gigi Gherzi, Victor Veronesi, storico dell’arte, e lo stesso architetto Pasquini, oltre ad alcuni membri del collettivo.

Appare più chiaro forse ora quanto quell’anfiteatro dimenticato a un incrocio di piccole e strette vie secondarie custodisse in sé una parte di anima della moderna città di Milano. Dal centro dell’acustica perfetta di quella mezzaluna, come racconta Paolo, era ancora possibile farsi ascoltare. 

Non c’è stato modo, né tempo, di sottrarre l’anfiteatro di via Porlezza alle regole della smart city, di salvarlo dalla logica urbanistica e architettonica della città mondiale votata al sacrificio del ricordo, della Milano del 2030, pronta a tutto per posizionarsi tra i primi posti delle città più all’avanguardia del mondo.

L’architetto, al termine della nostra conversazione, pone un quesito cui dovremmo rispondere non solo noi singoli, ma soprattutto le istituzioni: “Ognuno di noi può coltivare dentro di sé con disperazione il dubbio e porre la domanda: quale uomo o automa siamo destinati a diventare e a tramandare nella Milano futura?” Le risposte, nascoste dietro il velo dell’ennesima campagna elettorale alle porte, potrebbero essere deludenti e spiacevoli.

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