draghi migliori

Un revival berlusconiano, tre esponenti di punta della Lega salviniana, e una buona dose di Comunione e Liberazione: ecco come si preannuncia il governo “tecnico” di Mario Draghi

I cosiddetti “governi tecnici” vanno in genere incontro a due equivoci. Il primo riguarda la loro presunta imparzialità. Il secondo la loro — sempre presunta — competenza, che sarebbe la chiave per una buona ed efficiente amministrazione. La composizione del governo Draghi, annunciata ieri sera dopo lo scioglimento della riserva al Quirinale, ha smentito entrambe queste supposizioni. 

Il premier incaricato aveva il difficile compito di accontentare i partiti che hanno deciso di sostenere la sua maggioranza — che va dalla Lega a Leu — e allo stesso tempo soddisfare le aspettative quasi messianiche che gran parte della stampa e dell’opinione pubblica avevano riposto nel suo governo, salutato finalmente come “il governo dei migliori.” Negli scorsi giorni, il grande riserbo tenuto da Draghi nella definizione della lista dei ministri aveva fatto pensare che l’ex presidente della Bce volesse fare sostanzialmente di testa propria, tenendo all’oscuro i partiti e consultandosi esclusivamente con il presidente della Repubblica.

Il risultato finale, però, sembra una rigorosa applicazione del famoso “manuale Cencelli” — dal nome dell’esponente democristiano che aveva elaborato un criterio “scientifico” per la ripartizione delle cariche tra partiti e correnti. Nel governo Draghi I le quote di rappresentanza dei singoli partiti vengono infatti minuziosamente rispettate, anche a costo di scontentare chi si aspettava un trionfo completo della “competenza” e della “tecnocrazia.” 

Il revival del Berlusconi V

La lettura della lista dei ministri è stata sconcertante per alcune riconferme, ma soprattutto per i nuovi ingressi. Il ritorno di Forza Italia nella maggioranza ha significato infatti il rientro al governo di tre nomi di spicco dell’ultimo governo Berlusconi: Mara Carfagna, che va a sostituire Giuseppe Provenzano al Ministero per il Sud; Mariastella Gelmini, che sostituisce Boccia agli Affari regionali; e Renato Brunetta, che torna allo stesso incarico di dieci anni fa: ministro della Pubblica Amministrazione, forse per completare lo smantellamento dell’amministrazione pubblica come la conosciamo. 

Sotto il Berlusconi V, infatti, Brunetta era stato protagonista di una campagna frontale contro i dipendenti pubblici, etichettati come “furbetti del cartellino” e “assenteisti.” Già allora, questa battaglia veniva presentata come una crociata in nome dell’efficienza, e può dare un’idea di come sarà disegnata la riforma della pubblica amministrazione, che si trova tra le poche linee programmatiche del governo Draghi trapelate finora. Più di recente, Brunetta ha definito lo smart working “un imbroglio,” invocando (era agosto) il ritorno al proprio posto di lavoro anche dei dipendenti pubblici, dato che “nel privato sono tutti rientrati.”

Il governo più a destra degli ultimi dieci anni?

Forse solo con la parentesi anomala del governo “gialloverde,” il Draghi I potrebbe essere considerato come il governo più a destra dell’ultimo decennio. Oltre agli ingressi di peso da Forza Italia, anche il rientro in maggioranza della Lega si porta dietro infatti alcuni nomi non indifferenti: in primis Giorgetti, il “volto pulito” della Lega sovranista di Salvini, assegnato al ministero dello Sviluppo Economico — che non è stato fatto confluire nel nuovo ministero della Transizione Ecologica come aveva chiesto Beppe Grillo in persona a nome del Movimento 5 Stelle. 

La funzione di Giorgetti è chiara: fa capire che le politiche industriali di questo governo coincideranno con le politiche industriali della Lega. Da questo punto di vista è significativo anche il bilanciamento geografico tra le regioni di provenienza dei ministri: dopo un governo accusato spesso di essere a “trazione meridionale,” ora su 23 ministri soltanto cinque vengono dalle regioni del centro-sud, e ben 9 vengono dalla Lombardia.

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La Lega non è stata solo accontentata con il ruolo di peso allo Sviluppo Economico: Salvini porta a casa anche altri due temi assunti come cavalli di battaglia negli ultimi anni, il Turismo — affidato a Massimo Garavaglia, viceministro all’Economia nel Conte I e vicino a posizioni antieuropeiste — e il neonato ministero della Disabilità, affidato a Erika Stefani, senatrice di stretta osservanza salviniana, nota per le proprie battaglie su Bibbiano e contro la legge che ha introdotto il reato di tortura, giudicata un’occasione per “criminalizzare la polizia e agevolare l’invasione dei clandestini.”

La continuità con il Conte bis

Dal lato del centrosinistra, includendo anche il Movimento 5 Stelle, nelle scelte di Draghi è prevalsa una linea di continuità con il Conte bis: a partire dalla riconferma di Roberto Speranza al ministero della Salute — non era scontato, dato che la gestione della sanità e della campagna vaccinale sono state tra i motivi principali per cui è stata aperta la crisi di governo. Per il resto, il Pd incassa la riconferma di Guerini e Franceschini alla Difesa e ai Beni culturali, e inserisce Andrea Orlando al Lavoro, trovandosi nella situazione imbarazzante di essere l’unica forza politica a portare al governo una delegazione unicamente maschile — circostanza che, ha assicurato Zingaretti su Facebook, sarà “aggiustata” nel completamento della squadra di governo, cioè con la nomina di viceministri e sottosegretari.

I “tecnici”

Nonostante l’alto numero di componenti politici, gli incarichi di maggiore rilevanza saranno in mano a personalità estranee alla politica, a partire dal ministro dell’Economia, Daniele Franco, ragioniere generale dello Stato dal 2013 fino al settembre 2019, quando si dimise dopo la pubblicazione di un messaggio in cui Rocco Casalino lo definiva uno di “quei pezzi di merda del Mef.” La scelta di Franco, con il suo basso profilo e il suo allineamento alle politiche del premier, rafforza ulteriormente il potere di Draghi su una materia centrale come l’economia — anche perché, oltre che al M5S, il nuovo ministro è inviso anche a Renzi, al quale aveva modestamente fatto notare degli errori nelle coperture del suo governo. 

Gli altri due tecnici di maggior rilievo sono il manager Vittorio Colao, ex capo della task force nominata dal governo Conte prima dei famosi “Stati Generali” che dovevano pianificare il rilancio del paese ma che sono rapidamente caduti nel dimenticatoio, e il fisico Roberto Cingolani, manager di Leonardo, l’azienda pubblica che produce e vende armi da guerra a mezzo mondo — incluso l’Egitto. Colao e Cingolani guideranno, rispettivamente, i ministeri della Transizione digitale e della Transizione ecologica — quest’ultimo parte però già azzoppato, perché, con la sopravvivenza del MiSE, è di fatto il ministero dell’Ambiente con l’aggiunta delle deleghe in materia di energia. 

Anche tra i tecnici, non mancano le posizioni politiche discutibili: ad esempio la nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia è sì una giurista autorevole in quanto ex presidente della Corte Costituzionale, ma è anche appartenente a Cl e attestata su posizioni fortemente conservatrici: nel 2019 il presidente di Gay Center Fabrizio Marrazzo aveva espresso preoccupazione per la sua nomina alla Consulta, facendo notare che Cartabia ha sostenuto che “la Costituzione italiana protegge la famiglia, differenziandola da altre forme di convivenze e non permette il matrimonio omosessuale.” Cartabia però non è l’unica esponente di Comunione e Liberazione presente nel nuovo governo: l’altra è Maria Cristina Messa, la nuova ministra dell’Università ed ex rettrice della Bicocca di Milano. D’altra parte lo stesso Draghi è un fervente cattolico, e ha pronunciato il proprio ultimo discorso politicamente rilevante dal palco del Meeting di Rimini di Cl

Come sarà possibile tenere insieme una compagine di governo così composita? È difficile dirlo, e molto dipenderà da quanto Draghi riuscirà a far prevalere la propria presunta autorevolezza “super partes” sulle spinte centrifughe dei partiti. Gli auspici non sono i migliori: ieri sera Salvini ha già criticato la riconferma di Lamorgese e Speranza, dicendo che dovranno “cambiare marcia.” Ma i malumori sono forti soprattutto all’interno del Movimento 5 Stelle: il partito, già spaccato sul consenso a Draghi, nonostante la riconferma eccellente di Luigi Di Maio al ministero degli Esteri si è sentito umiliato dalla definizione degli equilibri interni al governo, e al Senato si parla di una trentina di parlamentari pronti a votare contro la fiducia. Su tutta la turbolenta operazione politica che ha portato alla nascita di questo governo monstre, che racchiude tutti i partiti dello spettro politico tranne uno, risuona l’interrogativo beffardo che si è concesso Alessandro Di Battista subito dopo la lettura della lista dei ministri: ne valeva la pena? 


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