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Le idee economiche dell’ex presidente della BCE sono note: più soldi alle imprese, meno sussidi e aiuti per i lavoratori e i più svantaggiati

Evocato da anni a intervalli regolari, ogni volta che si profila l’eventualità, anche remota, di una crisi politica, il governo Draghi  alla fine è arrivato, come si addice a tutte le profezie auto-avveranti: l’ex presidente della Banca Centrale Europea è atteso oggi alle 12 al Quirinale per il conferimento dell’incarico, dopo il fallimento completo del “mandato esplorativo” affidato al presidente della Camera Roberto Fico.

Nel suo intervento di ieri sera, Mattarella è stato molto chiaro: le forze politiche che sostenevano il governo Conte bis non riescono a mettersi d’accordo per formare una nuova maggioranza, ma andare a elezioni nel pieno della pandemia e con l’incombenza della campagna vaccinale e del Recovery Fund sarebbe irresponsabile, quindi l’unica soluzione è un governo di “alto profilo” da affidare a una figura a cui i partiti della maggioranza uscente — ma anche quelli dell’opposizione — avrebbero molta difficoltà a dire di no.

La scelta di Draghi è tutto tranne che inaspettata — il suo nome circola da ben prima dell’inizio della crisi scatenata da Italia viva: a ottobre 2019, con il Conte bis appena nato e lontano da qualsiasi aria di rottura, Giancarlo Giorgetti commentava un retroscena del Giornale definendo “probabile” l’eventualità che Draghi, appena terminato il mandato alla BCE, sostituisse Conte a Palazzo Chigi. E la scelta è tattica, perché Draghi, dipinto fino alla nausea come uomo della provvidenza e incarnazione stessa della “competenza,” è forse l’unico nome in grado di ottenere una maggioranza trasversale nell’attuale parlamento. 

Renzi ha ottenuto quello che voleva: sin dall’inizio era chiaro che il suo obiettivo fosse far fuori Conte da Palazzo Chigi e spaccare, o estromettere del tutto dalla maggioranza, il Movimento 5 Stelle, che sicuramente è il partito più imbarazzato dall’ipotesi di votare la fiducia a un governo Draghi — e che infatti ha annunciato, per ora, che se ne tirerà fuori. Ma si tratta anche di una vittoria programmatica: un governo “tecnico” di questo genere, se riuscirà a formarsi e trovare una maggioranza parlamentare, potrebbe perseguire politiche molto vicine a quelle per cui Italia viva, almeno ufficialmente, ha fatto saltare il tavolo delle trattative con Pd e M5S. Attenuando, cioè, le componenti progressiste che hanno permesso la realizzazione e il mantenimento di alcuni strumenti di tutela sociale, prima e dopo la pandemia. I primi obiettivi a cadere potrebbero essere ad esempio il reddito di cittadinanza, il blocco dei licenziamenti e il blocco degli sfratti. 

Scegliendo Draghi, Mattarella ha scelto di perpetuare l’equivoco tecnocratico che abbiamo già vissuto nel 2011 con la nomina del governo Monti: l’idea che, in una situazione di grave crisi, la priorità sia avere un governo qualsiasi, a prescindere dal suo colore politico. L’equivoco si fonda proprio sul presupposto che alle crisi si possano trovare soluzioni meramente “tecniche,” che sono “giuste” per tutti e quindi per definizione apolitiche. Non serve un ideologo, serve un manager. Rispetto a un governo Monti, manca la giustificazione dell’emergenza finanziaria, che dieci anni fa aveva permesso varare una serie di riforme economiche di destra come la riforma Fornero nell’arco di un tempo brevissimo. E, al contrario, c’è un’emergenza sanitaria che impone un’ingente spesa pubblica per far fronte a sfide senza precedenti, come la campagna vaccinale e le necessarie tutele per i settori più colpiti dalle chiusure. Dirigere questa spesa pubblica dipende dagli orientamenti politici del governo, e Draghi, pur essendo noto in Europa per i suoi contrasti con i “falchi” ultraliberisti del Nord, non è certo sostenitore di una visione economica progressista.

La scelta se prorogare o no il blocco dei licenziamenti invece è del tutto politica.

Così come sono politiche le valutazioni che portano a decidere come spendere i soldi del Recovery Fund e quali “riforme” attuare. Anche le misure di contenimento della pandemia sono innanzitutto politiche, e abbiamo visto che in tutto il mondo governi di colore diverso hanno dato risposte diverse. Questo perché, naturalmente, la società non è un “tutto organico,” e anche di fronte a una pandemia che, apparentemente, colpisce e danneggia tutti allo stesso modo, c’è sempre chi vince e chi perde.

Quali potrebbero essere, quindi, le scelte politiche di Mario Draghi? Complice il proprio ruolo istituzionale alla BCE, l’economista ha mantenuto negli ultimi anni un profilo piuttosto schivo, e non si è mai sbilanciato troppo a commentare gli sviluppi della politica italiana. Anche per questo ha potuto ammantarsi dell’aura di tecnico infallibile e buono per tutte le stagioni, meritevole di elogi tanto dalla Lega quanto dal Pd. Le sue idee economiche però sono note: Draghi è stato, nel ruolo di direttore generale del Tesoro, uno dei protagonisti della grande stagione di privatizzazioni negli anni Novanta, e in seguito — passando da Goldman Sachs alla Banca d’Italia — si è fatto portavoce di alcune ricette classiche del liberismo economico. Già nel 2009, tanto per fare un esempio, era tra i sostenitori della necessità di alzare l’età pensionabile e “riformare gli ammortizzatori sociali” per adeguarli a “un mercato del lavoro diventato più flessibile.” 

Durante il mandato alla BCE è diventato celebre soprattutto per il quantitative easing e per le politiche monetarie espansive che, in ossequio al principio del “whatever it takes,” sono state messe in campo per “salvare l’euro” anche a costo di scontrarsi con i sostenitori più accaniti dell’austerity. Ma l’intervento pubblico in economia, per Draghi, resta sempre finalizzato al sostegno degli unici attori considerati in grado di creare lavoro e reddito: le imprese. Lo si capisce chiaramente da un intervento recente pubblicato a marzo sul Financial Times, che fornisce un’ottima anticipazione di quello che potrebbe essere il programma di un futuro governo Draghi.

Nell’articolo, l’ex presidente della BCE sostiene la necessità, per gli stati, di ricorrere al debito pubblico per far fronte alla pandemia. Questo debito pubblico, però, dovrebbe servire soprattutto ad assorbire le perdite del settore privato: “La priorità dev’essere non solo quella di offrire un reddito di base a chi perde il lavoro. Dobbiamo fare in modo che le persone non perdano il proprio lavoro in partenza.” Queste affermazioni sono state interpretate da molti come una critica alla politica di bonus e di sussidi messa in campo dal governo italiano per arginare gli effetti della crisi sui ceti più svantaggiati — a partire dalla decisione di rinnovare il reddito di cittadinanza con l’ultima manovra finanziaria. All’ultimo Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione Draghi ha ripetuto più o meno la stessa cosa, invitando ad abbandonare la “fase dei sussidi” e distinguendo tra un debito buono — sottinteso: quello “produttivo” — e un debito “cattivo” — sottinteso: quello dei sussidi alle persone. 

Sembra chiaro allora quali potrebbero essere le politiche del governo Draghi: quelle chieste a gran voce dal presidente di Confindustria Carlo Bonomi, che — adottando un linguaggio meno sibillino di quello dell’economista prestato a Palazzo Chigi — ha parlato di “Sussidistan” per criticare le politiche sociali del governo, nonostante i ricchi contributi che lo stato ha dato e continua a dare alle imprese. Sin dall’inizio della crisi pandemica Bonomi ha alzato la posta dello scontro con il governo, dalla richiesta di 3,4 miliardi per le accise sull’energia pagate impropriamente dalle imprese fino ai continui appelli per rimuovere almeno in parte il blocco dei licenziamenti, per permettere agli imprenditori di “liberare.” Con Draghi al governo, l’associazione degli industriali potrebbe finalmente aver trovato l’interlocutore che voleva. 

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