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in copertina, elaborazione di un grab via YouTube

Lo strappo tra Casaleggio-Di Battista e la parte governista del Movimento 5 Stelle rivela che il partito non è mai stato un “movimento,” ma una struttura tecnica gestita come un’azienda, o un club privato

Dopo le elezioni regionali, la paura del contagio su larga scala ha fatto passare in secondo piano notizie che forse in tempi normali avrebbero occupato le prime pagine dei quotidiani e del dibattito pubblico, come la progressiva e forse inarrestabile implosione del Movimento 5 Stelle. Come scrivevamo tre settimane fa, il Movimento sembra essere in una crisi d’identità senza uscita: la vittoria del sì al referendum sul taglio dei parlamentari — una notizia già quasi dimenticata nonostante la sua importanza — è stata oscurata dall’evaporazione dei consensi per il partito emersa dalle elezioni amministrative. 

La debolezza sul territorio è sempre stata un problema molto grave per il M5S: a livello locale, il partito riesce a raccogliere consenso solo quando organizzazioni spontanee, che in altri contesti si sarebbero unite in liste civiche, sposano il brand M5S — quando invece l’organizzazione cerca di presentarsi con un candidato dall’alto o con meccanismi più convenzionalmente politici, fallisce. Quella che in altri tempi sarebbe stato però solo un punto critico ha fatto esplodere il partito, che è sempre più spaccato in due. 

Lo strappo corre tra chi vuole completare la trasformazione in partito istituzionale, lontano dai precedenti exploit elettorali ma che sappia navigare le stanze del potere con il proprio 10–15% di consenso; e chi invece sogna di riportare il partito alle proprie origini barricadere, contrarie ad ogni alleanza, sfasciste. Mentre il primo settore è rappresentato dai parlamentari e dall’area politica che fa capo a ministri e funzionari, ad esempio Luigi di Maio e Roberto Fico, il secondo è rappresentato da Alessandro Di Battista e Davide Casaleggio.

La parziale novità delle ultime settimane è infatti la “discesa in campo” sempre più esplicita del figlio del padre spirituale del Movimento, Gianroberto, in genere piuttosto defilato dalle dinamiche politiche nazionali. Finora, Casaleggio era sempre sembrato interessato soprattutto — a quanto pareva — ad amministrare le sue aziende e la piattaforma Rousseau, mentre ieri si è fatto sentire con un post pubblicato personalmente, proprio su Rousseau. Casaleggio ha sferrato un attacco durissimo, che preannuncia forse una scissione vera e propria, annunciando che toglierà il proprio sostegno al Movimento “se diventerà un partito” — ehm — e che presto potrebbe fornire i servizi di Rousseau ad altri “movimenti, associazioni e organizzazioni.” Un post prontamente rilanciato da Alessandro Di Battista.

Non è chiaro quale effetto possa avere questo trambusto interno sulla tenuta del governo Conte II.

La minaccia però c’è, vista la posizione radicalmente anti-Pd di Di Battista, ed è ancora più degna di nota in quanto Casaleggio potrebbe avanzare pretese fondate sul diritto di utilizzare il logo del Movimento, togliendolo a chiunque ritenga non in linea con la propria posizione. La spaccatura sembra essere insanabile — il Movimento ha addirittura preso pubblicamente le distanze dal post di Casaleggio. 

L’allontanamento del partito da Casaleggio, o di Casaleggio dal partito, non cambia però la sostanza delle dinamiche di potere all’interno dell’organizzazione. Fin dall’ascesa del partito, fondato ormai più di dieci anni fa dall’incontro di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio, uno dei punti che sono stati indicati come più critici da parte di chiunque abbia studiato il Movimento è infatti la sua natura privatistica, più simile a quella di un’azienda rispetto a quella classica di un partito di rappresentanza democratica.

A lungo, infatti, il M5S è stato gestito come una sorta di club, di proprietà di Grillo e Casaleggio: una delle più tipiche minacce agli eletti che non rispettavano le regole dei padri-padroni era la revoca del diritto di utilizzare il simbolo del Movimento associato al proprio nome: un’azione più simile a una vertenza sul copyright di un marchio registrato rispetto ad una scissione politica. Nel corso degli anni sono cambiate molte cose: ma Grillo continua ad essere proprietario del simbolo. Ecco quanto riporta l’Huffington Post

Si potrebbe aprire una battaglia legale sul simbolo M5S, Oggi di proprietà di Beppe Grillo ma affidato all’Associazione Rousseau, quindi a Casaleggio e a Luigi Di Maio. Poi ce n’è anche un altro, già oggetto di disputa in tribunale. E comunque, da quel poco che trapela da ambienti milanesi, Casaleggio non ha alcuna intenzione di darla vinta facilmente. “Se andrà via, andrà via portandosi il pallone”, spiegano fonti pentastellate a lui vicine. La guerra è appena iniziata.

Se si dovesse arrivare ad una scissione, insomma, Casaleggio sembra determinato a portare con sé tutto l’armamentario informatico e d’immagine che negli ultimi anni ha contraddistinto il Movimento: simbolo, piattaforma online. Il che è interessante e inquietante al tempo stesso, se si pensa che Casaleggio due anni fa dichiarava che “Oggi, grazie alla Rete e alle tecnologie, esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività del volere popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è quindi inevitabile.” Osservando sia le parole che le azioni di Casaleggio, infatti, la sua posizione sembra essere: la democrazia va superata, ma la cosa che viene dopo la devo fornire io.

Nonostante sia ammantata dai misticismi sull’internet a cui siamo ormai abituati — echi di un passato lontanissimo in cui qualcuno poteva anche lasciarsi interessare dalla proposta di Casaleggio — oggi possiamo dire che la democrazia online a cui ci ha abituato il M5S è stata un fallimento: quante volte Rousseau è crashato in occasioni di votazioni particolarmente importanti? Sul caso Diciotti, ad esempio, o sulle primarie del 2017. E quante volte sono emersi dubbi sull’affidabilità nella sicurezza dei dati all’interno del sito?

I recenti movimenti politici di Casaleggio sembra sempre di più un mix tra l’autoritarismo tecnocratico a cui ci ha abituato il M5S e la stizza di qualcuno che non ha ricevuto la propria percentuale su un affare — i rapporti con i parlamentari si sono incrinati definitivamente anche quando un numero sempre maggiore di questi si è rifiutato di versare il contributo di 300 euro mensili per il funzionamento della piattaforma Rousseau. Non delle grandi premesse per rilanciare un progetto politico che si propone di superare la democrazia rappresentativa.

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