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in copertina, foto via Twitter

Oggi si celebra la ricorrenza della firma della Convenzione di Ginevra del 1951, ma i diritti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono calpestati tutti i giorni dai governi europei

Ogni 20 giugno, dal 2000, viene celebrata la Giornata mondiale del rifugiato. La ricorrenza è stata scelta per ricordare la firma della Convenzione sullo statuto dei rifugiati, tenutasi il 20 giugno del 1951 a Ginevra. Nonostante il passaggio di più di mezzo secolo potrebbe richiedere la stesura di una nuova convenzione, il trattato — stilato all’indomani della Seconda guerra mondiale — contiene numerosi principi che ancora oggi sono il cardine della politica internazionale in merito. Ad esempio il principio del cosiddetto non refoulement, che impedisce il rimpatrio di persone soggette a discriminazioni etniche, razziali o religiose nel paese d’origine.

Ribadire questo principio è più che mai importante oggi, in un periodo storico in cui le autorità europee collaborano attivamente con la cosiddetta guardia costiera libica per riportare persone in un paese dove la tortura e il mancato rispetto dei diritti umani più basilari sono all’ordine del giorno.
Nel corso degli ultimi diciotto anni nel canale di Sicilia sono morte almeno 34mila persone nel tentativo di raggiungere l’Europa. È dalla “tragedia di Natale” del 1996 la politica italiana ed europea promette di trovare una risposta che impedisca ulteriori morti. Poi, un giorno, sono sparite anche le promesse, e l’unica risposta alle migrazioni dal continente africano è stata l’esternalizzazione delle frontiere — attraverso accordi bilaterali o interventi militari, dal Nord Africa al Sahel — e la criminalizzazione del soccorso in mare.

Il risultato, di fatto, è simile alla politica del “piede asciutto, piede bagnato” adottata molti anni dagli Stati Uniti nei confronti dei migranti cubani: solo chi riesce a superare il mare — evitando i respingimenti che l’Unione europea coordina a distanza lasciando il lavoro sporco alla Guardia costiera libica — può esercitare i propri diritti e fare domanda d’asilo. Questi respingimenti “per procura” sono stati documentati pochi giorni fa da un dettagliato rapporto pubblicato da diverse Ong attive nel soccorso in mare. Ma la situazione non è tanto diversa in Grecia, dove la Guardia costiera compie abitualmente respingimenti illegali verso la Turchia, o sulla rotta terrestre che passa attraverso i Balcani, da cui sono emerse nelle ultime settimane le testimonianze atroci delle violenze commesse ai danni di chi cerca di superare il confine tra Bosnia e Croazia.

— Leggi anche: La rotta balcanica al contrario: i migranti respinti illegalmente dall’Italia finiscono in Bosnia

Ieri un poliziotto croato è stato arrestato per aver usato violenza su un migrante afghano: è la prima volta in un decennio che accade. Nei giorni scorsi, alcuni poliziotti croati sono stati accusati di aver legato 11 pakistani a degli alberi torturandoli per tre ore, sfregiandoli con dei coltelli e sparandogli rasente all’orecchio o alle gambe per divertimento.

Nel Mediterraneo centrale, la situazione è uguale a se stessa dal 2017 — quando è iniziata la criminalizzazione delle navi umanitarie che avevano coperto il vuoto lasciato dalla fine dell’operazione Mare Nostrum. Nel momento in cui scriviamo, a bordo della Sea Watch 3 ci sono adesso 211 migranti — tutti soccorsi nel giro delle ultime 48 ore. Gli ultimi ad essere salvati dalle acque sono stati 46 migranti alla deriva su una piccola imbarcazione di legno, nella notte di venerdì. La nave ora cerca un porto dove sbarcare i naufraghi, ma come sempre dalle autorità competenti maltesi e italiane non arrivano risposte.

Anche la Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans ha effettuato un’operazione di salvataggio, riuscendo a soccorrere nel tardo pomeriggio di ieri 70 migranti nell’area SAR maltese, 48 miglia nautiche a Sud-ovest di Lampedusa. La ONG, sul suo profilo Twitter, ha anche fatto notare come i velivoli di Frontex non abbiano offerto alcun contributo alle operazioni, ringraziando invece i piloti di Moonbird, il piccolo aereo di Sea Watch che fornisce un supporto fondamentale per il monitoraggio della situazione in mare.

Questi ultimi salvataggi — centinaia di persone sottratte alla morte in mare o alla deportazione nei lager libici — confermano l’importanza del lavoro delle organizzazioni non governative, gettando pesanti ombre su quello che accade quando le autorità italiane, ad esempio, le bloccano in porto con i pretesti più svariati. In assenza di canali sicuri di migrazione verso l’Europa — che esistono solo per poche categorie di lavoratori che “fanno comodo” e per cui vengono organizzati appositi voli — i mezzi navali delle Ong sono l’unico fattore in grado di limitare la strage senza fine che si consuma sotto gli occhi complici delle autorità europee.
Rispetto a quando il Viminale era occupato da Matteo Salvini la situazione è cambiata soprattutto nei toni — molto poco nella sostanza. Anzi, per alcuni aspetti è peggiorata, se pensiamo al decreto con cui, durante la pandemia, il governo ha dichiarato come “non sicuri” i porti italiani alle navi battenti bandiera straniera — un provvedimento ancora valido e che reca in calce anche il nome del ministro Roberto Speranza, appartenente al partito teoricamente più progressista della maggioranza, Liberi e Uguali. Nel frattempo, a Lampedusa continuano gli sbarchi autonomi, a dimostrazione che la presenza o meno dei mezzi di soccorso in mare non influisce sulle partenze.

Cinque anni dopo la morte di Aylan Kurdi, l’opinione pubblica europea si è mostrata molto più insensibile di fronte alla foto di una bambina di cinque mesi, trovata morta quattro giorni fa sulla spiaggia di Sorman, in Libia, dopo un naufragio avvenuto sabato scorso. Altri corpi sono stati ritrovati ieri dalla Mezzaluna Rossa nei pressi della città di Sabrata.

È la giornata giusta, però, per ricordare non solo chi soffre o muore nel tentativo di raggiungere l’Europa, ma anche i soprusi e le discriminazioni di chi riesce ad arrivare sul continente. Ieri un migrante si è cucito la bocca nel CPR di Macomer, in provincia di Nuoro, per protestare contro le condizioni in cui lui e i suoi compagni sono tenuti. Il CPR, aperto da pochi mesi, ospita circa 50 persone, teoricamente in attesa di essere deportate dall’Italia — ma i “rimpatri” sono bloccati per via della pandemia. A fine maggio nei vari CPR ancora attivi su tutto il territorio nazionale risultavano ancora prigioniere 178 persone.

Lo sfruttamento e la violazione sistematica dei diritti di chi è straniero è strettamente legata al funzionamento del sistema economico italiano — a partire dalla filiera agroalimentare, che si basa su manodopera a basso costo in Italia più che in ogni altro paese europeo. Anche su questo fronte, le politiche messe in campo da questo governo — e da quelli che l’hanno preceduto — sono gravemente insufficienti: la sanatoria varata con il Decreto rilancio, che dovrebbe riportare nella legalità il lavoro di migliaia di persone sfruttate nei settori dell’agricoltura e della cura domestica, non solo è parziale e discriminatoria — dal momento che esclude interi settori lavorativi e impone vincoli spesso impossibili da soddisfare — ma non mette in discussione la base su cui ancora si fondano le politiche migratorie del nostro paese: la legge Bossi-Fini, che da 18 anni produce irregolarità e discriminazione.

In un momento in cui tutto il mondo occidentale è scosso da manifestazioni che chiedono la fine delle discriminazioni razziste, celebrare la Giornata mondiale del rifugiato significa anche riconoscere come per raggiungere una vera uguaglianza sociale sia importante lottare per una vera uguaglianza di tutte le persone, ad ogni livello: uguaglianza giuridica, uguaglianza economica, uguaglianza nella dignità.

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