rsa-casa-di-riposo-lombardia-cover

La Residenza Borromea di Mombretto, frazione di Mediglia (Milano), foto di Emiliano Cuti, via Facebook

Non si può parlare di fatalità: le residenze assistenziali delle province più colpite dalla pandemia hanno registrato un numero sproporzionato di vittime a causa di impreparazione e scelte politiche sconsiderate.

Da alcuni giorni stanno emergendo i dettagli su come le Rsa e le case di riposo lombarde siano state, insieme agli ospedali, uno dei luoghi in cui il nuovo coronavirus ha potuto diffondersi con maggiore facilità e con esiti devastanti. Una “strage silenziosa” denunciata da sindaci, operatori sanitari e parenti delle persone ospitate nelle strutture, e che va attribuita a un mix letale di impreparazione e decisioni politiche sconsiderate.

Qualche esempio: nella casa di riposo di Mombretto, in provincia di Milano, nel giro di un mese si sono registrati 64 morti, poco meno della metà degli anziani ospitati. I familiari hanno inviato una diffida all’Ats della città metropolitana di Milano, denunciando che “a oggi [3 aprile, ndr] non risulta una valutazione reale delle condizioni di salute dei nostri congiunti, in quanto non tutti gli anziani attualmente ospiti della struttura sono stati sottoposti a tampone diagnostico.” A fine marzo i responsabili delle strutture in provincia di Bergamo calcolavano oltre 600 morti su 6400 posti letto in soli 20 giorni. Situazione simile in provincia di Brescia: alla casa di riposo Gambara Tavelli di Verolanuova, per esempio, in tre settimane sono morte 32 persone su 120.

La maggior parte di questi morti non rientra nel conto ufficiale dei deceduti per Covid-19, perché spesso si tratta di persone morte senza un tampone che ne attestasse la positività al virus. La sproporzione rispetto al numero di decessi che si registra in tempi “normali,” però, suggerisce che il virus abbia avuto un ruolo predominante tra le cause di morte. Ad esempio, in due residenze al quartiere Corvetto di Milano ci sono stati a marzo complessivamente 66 morti, di cui solo 9 ufficialmente per Covid-19, ma nel marzo dell’anno scorso i decessi nelle stesse due strutture erano stati soltanto 17. 

Come siamo arrivati a questa situazione

Non era difficile immaginare che un virus particolarmente letale per le persone con più di 65 anni avrebbe causato una strage nelle residenze per anziani. Considerato che gli ospiti di queste strutture tendenzialmente non escono, a rigor di logica non era difficile nemmeno fare in modo che il contagio non si diffondesse al loro interno. Sarebbe stato sufficiente applicare, con rigore, due semplici misure in tutte le strutture: chiudere immediatamente le residenze alle visite dall’esterno; fornire a tutti gli operatori adeguati dispositivi di protezione e sottoporli regolarmente al tampone per individuare e isolare tempestivamente eventuali casi di contagio. Nessuno di questi due accorgimenti è stato preso, se non con grande ritardo, quando ormai il virus aveva già preso a circolare dentro e fuori le Rsa senza praticamente nessun controllo.

Subito dopo l’individuazione dei primi due focolai nella bassa lodigiana e in provincia di Padova, a fine febbraio, la linea seguita nelle strutture per anziani è stata quella della “prudenza”, ovvero: sono state prese precauzioni molto timide contro il rischio di contagio, cercando di non stravolgere eccessivamente la vita all’interno delle strutture — di cui le visite dei familiari sono una parte fondamentale — nella convinzione che le prime due “zone rosse” fossero sufficienti a impedire che il virus si diffondesse anche altrove. A Gallarate (VA) il sindaco leghista Cassani e i direttori delle Rsa territoriali lo scorso 24 febbraio rassicuravano i cittadini dicendo che non ci sarebbe stato “nessuno stravolgimento” e raccomandando di “limitare il più possibile le visite ai parenti non ritenute strettamente necessarie.” Ma senza nessun divieto.

La stessa strada è stata percorsa da molte altre Rsa del Nord Italia: alcune hanno deciso autonomamente di sospendere del tutto le visite ai parenti già a fine febbraio, attrezzandosi per organizzare videochiamate, ma per la maggior parte si sono limitate a inviti e raccomandazioni. Il Dpcm del 4 marzo lasciava ancora una sostanziale libertà ai direttori delle strutture, invitando semplicemente ad “adottare le misure necessarie a prevenire possibili trasmissioni di infezione.” Prima della “chiusura” dell’intera Lombardia e poi di tutto il territorio nazionale, tra il 7 e il 9 marzo, le case di riposo sono rimaste quindi aperte alle visite esterne, senza adeguati dispositivi di protezione per il personale e senza un piano di test diagnostici per ospiti e operatori. 

Leggi anche: Perché l’Italia si è dimostrata così impreparata di fronte alla pandemia?

Ancora il 6 marzo, il direttore sanitario dell’Ats di Milano Vittorio Demicheli sosteneva che “in questo momento la probabilità che un contatto della zona rossa entri in una casa di riposo del milanese è bassissima, quindi l’unica richiesta che facciamo alle strutture è di organizzare un minimo di controllo all’ingresso e lasciare fuori le persone sintomatiche.” Una leggerezza simile si è registrata anche in Liguria, dove il commissario straordinario dell’azienda sanitaria regionale, Walter Locatelli, sosteneva che fosse sufficiente “mitigare l’accesso per evitare affollamenti,” facendo entrare una sola persona al giorno per paziente, secondo un meccanismo definito “di buonsenso.”

Eppure, già il 3 marzo si era verificato un caso di positività al Sars-CoV-2 in una residenza per anziani, e proprio nel milanese: alla Rsa Sant’Erasmo di Legnano, dove era stato accertato il contagio di un’ausiliaria socio-assistenziale rimasta al lavoro, a stretto contatto con gli ospiti, fino a pochi giorni prima. In quella stessa struttura i tamponi sugli operatori, e solo sui sintomatici, sono stati autorizzati dall’Ats con un ritardo inspiegabile di 23 giorni. Ad oggi alla Sant’Erasmo risultano morti diversi ospiti e un infermiere di 50 anni.

La strategia della Regione e delle Ats

Tra gli anziani morti alla Sant’Erasmo di Legnano c’è anche un 82enne che, risultato positivo al tampone nell’ospedale della città, era stato rimandato nella stessa Rsa, dove è rimasto per 12 giorni, fino al decesso, in una “stanza isolata” ricavata all’interno della struttura. Rimandare pazienti malati all’interno di strutture piene di altri anziani? Sembra una follia, ma è la linea ufficiale seguita dalla regione. Con una delibera della giunta — la numero XI / 2906 dell’8 marzo 2020 — si disponeva infatti di individuare “strutture della rete sociosanitaria (ad esempio Rsa) da dedicare all’assistenza a bassa intensità dei pazienti COVID positivi,” con l’obiettivo di “liberare rapidamente posti letto di terapia intensiva e sub intensiva negli ospedali.”

Leggi anche: Quanti posti letto sono stati tagliati negli ospedali italiani dal 1980 a oggi?

Il problema è che, come ha spiegato al Post il direttore di una Rsa bresciana, “le Rsa non sono ospedali, e non sono sicuramente ospedali con reparti di malattie infettive. Non abbiamo nessun tipo di barriera che possa isolare il malato dal non malato. Il contatto tra operatori e ospiti è stretto, le persone vanno imboccate, lavate.” Molti ospedali si sono trasformati in focolai proprio perché non sono stati in grado di isolare adeguatamente i pazienti infetti e di proteggere il personale medico: come si è potuto pensare che le residenze per anziani avrebbero potuto fare di meglio?

Lo scorso 18 marzo l’assessore al Welfare Gallera si è difeso dalle critiche dicendo che i pazienti positivi sono stati trasferiti nelle Rsa “solo laddove vi [fossero] strutture con padiglioni separati dagli altri e con personale dedicato solo a questo.” Ma Luca Degani, presidente di Uneba — un’associazione di categoria che raggruppa circa 400 case di riposo lombarde — ha detto al Quotidiano del Sud che quella delibera è stata come “accendere un cerino in un pagliaio […] L’abbiamo riletta due volte, non volevamo credere che dalla Regione Lombardia potesse arrivarci una richiesta così folle.”

Degani cita anche la paura, da parte dei direttori delle strutture, di perdere i finanziamenti regionali da cui dipende in buona parte la loro sopravvivenza. Motivo per cui in molti non hanno parlato. Secondo un articolo del Fatto Quotidiano, la regione e le aziende sanitarie locali avrebbero sostanzialmente fatto leva su questa paura anche per costringere le case di riposo della bergamasca a non chiudere: già a fine febbraio, a quanto risulta, l’Associazione delle case di riposo della bergamasca (Acrb) aveva chiesto all’Ats di chiudere le residenze in città e provincia, ma la giunta regionale avrebbe opposto “un netto rifiuto,” cambiando idea soltanto una settimana dopo. Alcune strutture avevano deciso di chiudere autonomamente, ma hanno ricevuto una lettera dall’Ats che ha imposto loro la riapertura, pena la perdita dell’accreditamento per “interruzione di pubblico servizio.” Se fossero state chiuse già a fine febbraio, due settimane prima dell’applicazione delle misure di quarantena su tutto il territorio nazionale, quante vite si sarebbero potute salvare?

Ma c’è anche di peggio: la direzione del Pio Albergo Trivulzio — che con 1300 anziani ricoverati è il polo geriatrico più grande d’Italia — avrebbe occultato per tutto il mese di marzo la diffusione della malattia nei suoi reparti, allontanando, lo scorso 3 marzo, un medico che aveva autorizzato l’utilizzo delle mascherine chirurgiche al personale alle sue dipendenze, nonostante l’esplicito divieto a indossarle da parte della direzione della struttura. “Gli anziani morivano e a noi, nonostante l’evidenza dei sintomi, dicevano che si trattava solo di bronchiti e polmoniti stagionali,” denuncia un delegato sindacale della Cgil. Ad oggi nelle strutture del Pio Albergo Trivulzio risultano 70 morti, e la Procura di Milano ha aperto un’indagine a carico di ignoti

Le responsabilità politiche

Mentre ancora oggi, a un mese e mezzo dalla scoperta dell’epidemia in Italia, le indicazioni per contenere i contagi all’interno delle Rsa restano insufficienti e contraddittorie, qualcuno sta già provando a coprire le responsabilità politiche dietro alle scelte che, come abbiamo visto, hanno contribuito a provocare una vera e propria strage. Non si spiega altrimenti l’emendamento presentato il 4 aprile dalla Lega al decreto “Cura Italia”, poi ritirato, che sostanzialmente “assolveva” i dirigenti sanitari da eventuali responsabilità civili e penali nel mancato contenimento del contagio, inclusi i casi in cui si sia operato “con mezzi e modalità non sempre conformi agli standard di sicurezza,” e con “insufficienza o inadeguatezza dei dispositivi di protezione individuale.” In Lombardia, come si vede chiaramente da un’infografica realizzata nel 2018 dal Corriere della Sera che ha ripreso a circolare sui social network dopo le polemiche sull’emendamento leghista, tutte le direzioni delle Ats e Asst sono saldamente in mano alla Lega e a Forza Italia. 

Eppure i dirigenti della sanità lombarda non dovrebbero avere nulla di cui preoccuparsi: stando a quello che ha detto ieri in conferenza stampa Pietro Foroni, assessore regionale a Territorio e Protezione Civile, “fino adesso come Regione Lombardia, è brutto da dire, ma le abbiamo azzeccate tutte.”

Segui Sebastian su Twitter