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L’80% della popolazione in Kenya vive di economia informale e sarebbe messo in ginocchio da un coprifuoco totale: restare a casa significherebbe non guadagnare quei 4-5 dollari al giorno che consentono di dar da mangiare alla propria famiglia.

“La scelta del diavolo,” con questo titolo il Daily Nation — il principale quotidiano del Kenya — apriva la prima pagina del 21 marzo. Dopo una serie di rumor molto insistenti nella giornata di giovedì, tutti si aspettavano l’annuncio della quarantena. Per questo da più parti è stato tirato un sospiro di sollievo a sentire il ministro della Salute Muthai Kagwe annunciare che il numero dei positivi al SARS-CoV-2 era rimasto stabile durante la giornata, e che non ci sarebbero state ulteriori restrizioni.

Il sollievo, tuttavia, è durato poco. Con il numero di casi positivi confermati salito a 28 nella giornata di mercoledì 25 e ulteriori restrizioni alle misure precauzionali in atto, la possibilità di un lockdown “totale” incombe minacciosa.

Il governo del Kenya sa di non essere pronto, e sta facendo di tutto per evitare la crisi: quella che è comunemente considerata la migliore misura di contenimento dell’epidemia qui fa molta paura, perché oltre a paralizzare l’economia, minaccia di scatenare il caos politico e sociale.

Alla fine, dopo giorni di intenso dibattito, il Presidente Uhuru Kenyatta ha preso un’altra “misura a metà”, un passo più vicina al lockdown ma non ancora del tutto, imponendo un coprifuoco nazionale dalle 19:00 alle 5:00 effettivo da venerdì 27 marzo. Dal coprifuoco saranno esentati solo il personale medico e chi lavora nei servizi essenziali. Tuttavia, come in ogni conferenza stampa nell’ultima settimana, Kenyatta ha ricordato che “il blocco totale rimane un’opzione, soprattutto se i kenioti continuano a ignorare le direttive del governo.

“Pensi che lo faranno davvero il total lockdown?” chiedo a Cyril, un autista di Uber. “Non lo so, ma per me è già così: oggi ho preso solo 3 corse. In un giorno normale ne faccio 15. Non c’è nessuno in giro. Va molto male.” 

Esther, che ha un baracchino di caffè nel Central Business District, spiega molto bene cosa vorrebbe dire una chiusura totale per lei e per quelli che come lei vivono hand-to-mouth, guadagnando il loro sostentamento grazie a piccoli commerci quotidiani: “Se smetto di lavorare io, chi provvederà ai miei due figli? Cosa dovremmo mangiare se resto a casa?” 

È questa la “scelta del diavolo:” rischiare di morire per il virus o rischiare di morire per la fame.

L’80% della popolazione in Kenya vive di economia informale e sarebbe messo in ginocchio da un coprifuoco totale: restare a casa significherebbe non guadagnare quei 4-5 dollari al giorno che consentono di dar da mangiare ogni giorno alla propria famiglia. 

In Italia c’è preoccupazione per la possibile rottura delle catene di approvvigionamento e della filiera alimentare, ma rimanere senza cibo, soffrire la fame, non rappresenta per fortuna una realtà per la maggior parte delle persone che vive nel nostro Paese. In Kenya, invece, il rischio che diventi la realtà per la stragrande maggioranza della popolazione da un giorno con l’altro è elevatissimo (a maggior ragione visto che il settore agricolo nazionale è piegato dall’invasione delle locuste). E questo tipo di disperazione in società altamente diseguali porta a una cosa sola: l’aumento dei tassi di criminalità. 

Ne parlo con Oliver, cha fa la guardia di sicurezza per una famiglia di Nairobi: “I bianchi, turisti o espatriati, sono i più esposti. Spiccano e chi li vede sa che anche se non è gente ricca avrà comunque più soldi in tasca di quanti ne abbia lui. E a volte può finire male.” 

Al fattore portafogli adesso si aggiunge anche il sospetto di essere untori, portatori dell’epidemia dall’Asia, dall’Europa e dall’America al continente africano, ed episodi spiacevoli si sono registrati un po’ ovunque: non solo in Kenya, dove per esempio la comunità italiana è molto numerosa, ma anche in Paesi con una comunità di espatriati più piccola, come il Burkina Faso.

Che il nuovo coronavirus non sia solo un problema sanitario è chiaro: le economie di mezzo mondo sono in fibrillazione e tutti i Paesi, a seconda delle proprie capacità, stanno ricorrendo ad ammortizzatori sociali e misure straordinarie. Ma non per tutti il coronavirus rappresenta anche un problema di sicurezza: a Milano, una delle aree più colpite dall’epidemia, è difficile pensare di essere rapinati perché si sta andando a fare la spesa. A Nairobi no. In Italia dopo oltre tre settimane di lockdown non siamo ancora arrivati a lanciare lacrimogeni per disperdere gruppi di persone che violano i provvedimenti, in Kenya succedeva già quattro giorni fa. Questo tipo di reazione “forte” da parte della polizia purtroppo è ben conosciuta dalla popolazione kenyana e desta preoccupazione.

Più i casi aumentano, più le misure si fanno stringenti, e le condizioni di sicurezza si deteriorano: “Siamo chiusi in casa, non usciamo e non abbiamo contatti con nessuno,” è il messaggio che mi ha mandato ieri la mia padrona di casa a Nairobi.

Il messaggio riassume anche il motivo per cui ho deciso di rientrare in Italia: non tanto perché temo di contrarre il virus in un Paese dove il sistema sanitario è precario, ma perché non mi sento sicura a vivere in un Paese dove è il tessuto sociale a essere fragile e dove in tempi di crisi ci mette un attimo a sfaldarsi.


Gemma Ghiglia lavora come Communications Officer per una ONG grazie all’iniziativa EU Aid Volunteers
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