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Dietro la pretesa di essere solo una piattaforma online, Airbnb attua una pressione gentrificatoria in tutte le città in cui è presente.

Ieri è successa una cosa interessante, diversa dalle solite a cui capita di assistere occupandosi di politica italiana. Due deputati del Partito democratico, Nicola Pellicani e Rosa Maria Di Giorgio, hanno presentato un emendamento al decreto Milleproroghe definito dai media “Anti-Airbnb.” Dopo poche ore però — appena il tempo perché entrasse nel dibattito pubblico — i firmatari stessi l’hanno ritirato. Come mai questa retromarcia? Cosa c’era di così terrificante in questo emendamento?

Il testo conteneva misure piuttosto robuste per limitare l’impatto che AirBnB sta avendo sul tessuto urbano e sociale delle città italiane:

  • avrebbe costretto i Comuni a stabilire un tetto massimo di permessi da concedere a chi affitta, definiti da licenze;
  • avrebbe obbligato a porre un tetto anche alla durata degli affitti. 
  • avrebbe chiesto a chi affitta più di tre stanze per meno di otto giorni di possedere una partita Iva, in quanto considerato a tutti gli effetti proprietario di un’impresa.

La proposta ha trovato però l’opposizione del partito centrista Italia Viva, che l’ha criticata aspramente e ne ha decretato, di fatto, l’affossamento. Luigi Marattin, vicepresidente dei deputati del partito, ha detto che “l’esigenza di regolamentare più efficacemente il fenomeno non può coincidere con impedire l’innovazione e sommergere di burocrazia e ostacoli un’attività economica.” I deputati di IV devono aver protestato in modo quantomeno vibrante, visto che raramente si è visto un emendamento venire ritirato tanto in fretta. 

La proposta è comunque una buona occasione per parlare delle assurdità del mercato immobiliare italiano. Soprattutto in Italia, è infatti ancora ben radicata nell’immaginario comune una certa retorica secondo cui Airbnb sarebbe soprattutto uno strumento utile a piccoli proprietari di abitazione per “arrotondare” mettendo in affitto una cameretta di casa. Le cose in realtà non stanno così: nel corso degli anni i grandi proprietari ne sono diventati i principali utenti.

Oggi, solo in Italia, Airbnb può contare 459 mila appartamenti registrati al proprio portale — e pochissimi sono i famigerati divani letto in appartamenti troppo spaziosi (lol) per i propri proprietari. In un ottimo articolo uscito su Il manifesto lo scorso 3 gennaio, sono riportati dei dati che smontano la narrazione diffusa secondo cui la piattaforma sarebbe un mezzo rivolto soprattutto a piccoli proprietari che vogliono “arrotondare:” 

A Venezia il 26% dei 5 mila «host» gestisce più dei due terzi degli 8 mila annunci. Un terzo dei ricavi dagli affitti brevi è gestito dal 5% degli host, per lo più agenzie specializzate.  […] A Firenze più del 60% dei 12 mila annunci, di cui 8 mila solo nel centro storico, sono pubblicati da multihost, grandi agenzie e proprietà immobiliari.

Con queste cifre si può dire che sostanzialmente Airbnb svolge un ruolo di agente immobiliare o turistico, senza dover rispettare le norme per questa attività. La Corte di giustizia europea però non è di questo avviso: con una storica sentenza dello scorso 19 dicembre, Airbnb non deve essere soggetto alle regolamentazioni del mercato immobiliare, ma solo di quello elettronico, essendo una piattaforma che mette in relazione domanda con offerta, venendo quindi qualificato come “servizio della società di informazione.” La causa era stata intentata dall’Associazione francese per l’alloggio e il turismo professionali.

“Questa sentenza tradisce un ritardo incredibile, anche forse volontario. In sostanza, la sentenza dice che il mercato ci sarebbe lo stesso e Airbnb è solo un mediatore. Questo non è vero.” Parole di Sarah Gainsforth, giornalista che lo scorso agosto ha pubblicato Airbnb città merce, un libro in cui prova ad analizzare più in profondità il fenomeno Airbnb. Il 15 gennaio l’autrice ha tenuto una presentazione anche nella città di Milano durante un evento organizzato da Archibooks. Nel libro Gainsforth smonta la retorica patinata dell’azienda che, leggenda vuole, sarebbe stata fondata da due studenti in cerca di un terzo coinquilino per la loro camera. Airbnb, invece,  “non è un’idea romantica che ha trovato un mercato, ma la creazione da parte dei capitalisti di ventura di un nuovo mercato — del resto il primo a finanziarli è stato il fondo di Venture Capital Sequoia Park.” 

Sarebbe sbagliato infatti fermarsi all’aspetto giuridico ed economico del problema. Nel nostro paese ci si è spesso concentrati sul lato economico e fiscale del fenomeno Airbnb, mettendo in luce le presunte modalità di concorrenza sleale con le strutture alberghiere: ci si è invece fermati poco ad analizzare la drammatica gentrificazione connessa a questo tipo di sfruttamento delle risorse urbane. Negli ultimi due anni, qualcosa si è mosso, e sono stati sollevati dubbi sempre più espliciti sulle conseguenze della penetrazione di Airbnb nei nostri tessuti cittadini.

Nel 2018, ad esempio, è stata fondata SET, una rete di città dell’Europa meridionale unite contro la turistificazione di massa, nata originariamente in Spagna, ma oggi diffusa anche in città come Venezia, Firenze e Roma. La rete è animata da semplici cittadini, attivisti e studiosi. Sulla loro pagina Facebook si può leggerne il manifesto, che descrive bene quello contro cui la rete si batte. Il primo punto è molto chiaro:

L’aumento della precarizzazione del diritto all’alloggio, in buona parte provocato dall’acquisto massivo di immobili da parte di fondi di investimento e fondi immobiliari per destinarli in buona parte al mercato turistico. In questo modo le abitazioni sono private della loro funzione naturale, si generano gentrificazione e sfratti e si assiste allo svuotamento di alcuni quartieri in una evidente violazione dei diritti sociali della popolazione.

In molte altre città del mondo, si è provato a limitare l’espansione senza controllo della piattaforma — anche in città non esattamente note per il contrasto alla gentrificazione o per le politiche sociali particolarmente accomodanti. L’esempio più lampante — anche per capire bene come funziona davvero Airbnb — è quello di San Francisco. “Nel 2015, la piattaforma ha speso 8 milioni di dollari per influenzare un referendum cittadino sul mercato degli affitti,” ha raccontato Gainsforth. In quell’anno, il Comune californiano ha varato una legge che impone a tutti gli affittuari di breve termine di iscriversi presso un registro cittadino. 

“Airbnb si presenta un attore politico tramite i suoi utenti, e si è raccontato per anni come amico della famosa classe media,” prosegue Gainsforth. “In Italia hanno fatto incontri dedicati agli utenti per spiegare come andare a chiedere cose al pubblico. Cercano di creare una comunità, con eventi con nomi tipo Come trasformare i tuoi clienti in veri credenti.” Una concezione di impresa onnipervasiva all’interno di un tessuto sociale insomma, visto sia come un terreno di sfruttamento sia come imposizione di una propria cultura economica e sociale, senza chiedere a chi in quelle zone ci vive già.

L’emendamento presentato e ritirato ieri conteneva degli spunti interessanti perché sembrava affrontare il problema in modo più completo rispetto a una diatriba tra nuove e vecchie forme di industria alberghiera. Evidentemente però, se c’è chi si sta organizzando per limitare l’impatto di Airbnb sulle nostre città, c’è anche chi ha interesse che le cose continuino in questa direzione. Del resto, come abbiamo ripetuto settimana scorsa nell’ultima puntata di TRAPPIST, insieme alla giornalista Rosy Battaglia, in Italia ha sempre vinto il partito del cemento con cui gli interessi dei costruttori e dei proprietari di casa vanno spesso a braccetto.

Basti pensare che la piattaforma ha stretto un accordo con il Comune di Milano e il CIO per le Olimpiadi del 2026 per la fornitura di alloggi in corrispondenza dell’evento sportivo. La partnership è  pensata per “limitare la necessità di costruire nuovi alloggi,” ma sembra evidente che la piattaforma parteciperà alla spartizione di una torta molto gustosa. Milano è la città italiana in cui la crisi degli affitti e l’insostenibilità del mercato immobiliare si stanno facendo sentire con più gravità, come abbiamo raccontato diverse volte, anche a causa della penetrazione sempre maggiore di Airbnb. A Milano esistono grandi proprietari di case, come UnipolSai e RealeMutua, che hanno tutti gli interessi ad un aumento del prezzo degli affitti e a normative più agili in merito. La situazione è tale che anche se fosse passato, l’emendamento non sarebbe comunque riuscito a limitare i disagi che la gentrificazione sta infliggendo agli studenti e alle classi meno abbienti di Milano — per contrastare la quale potrebbero servire misure drastiche.

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