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Approfittando del concerto milanese dei Quartieri abbiamo parlato con Fabio Grande del loro nuovo disco, ASAP, e abbiamo capito che per scrivere belle canzoni tocca vivere, avere cose da dire e, indipendentemente dal genere che si fa, ascoltare Frank Ocean aiuta sempre.

Una delle prime cose su cui sarete finiti se avete già ascoltato il nuovo disco dei Quartieri è il video di “Siri.” L’inquadratura punta sullo schermo del cellulare di una ragazza musulmana e racconta la sua giornata tipo, fatta di scroll incessante tra le app. Ci potete trovare tutte le critiche alla società contemporanea del caso, ma ciò non toglie che l’idea sia brillante ed estremamente attinente alla realtà. La nostra vita è anche quello: osservare compulsivamente, per motivi diversi e anche giustificabili, lo schermo di uno smartphone. Quando lo senti dire sembra il solito luogo comune, visto da fuori invece ci si rispecchia e, da qualsiasi punto di vista la si voglia vedere, la cosa fa sempre un certo effetto. 

“Siri” è l’ultimo singolo estratto da ASAP, il secondo disco dei Quartieri. Fuori per 42 Records, ASAP è un album notturno in cui puoi sentire un sacco di cose, dalla delicatezza di un brano dei Radiohead, ai graffi dell’alternative rock, alla tradizione cantautorale romana: voce sospirata e strumenti accarezzati. Sono otto canzoni e arrivano a sei anni di distanza da Zeno, il loro primo lavoro, dal quale sono stati estratti tre brani scelti per la colonna sonora della prima e della seconda stagione di Suburra, la serie TV targata Netflix. 

In mezzo c’è stato un riassetto del gruppo e l’esigenza di prendersi del tempo per ripartire nella maniera più convincente. Ora, dopo sei anni, I Quartieri sono tornati con un disco e un tour, così abbiamo approfittato del concerto milanese per parlare con Fabio Grande e abbiamo capito che per scrivere belle canzoni tocca vivere, avere cose da dire e, indipendentemente dal genere che si fa, ascoltare Frank Ocean aiuta sempre.

Ti va di raccontarci cos’è successo nella vostra vita da Zeno, il vostro primo disco?

In questi anni sono successe molte cose, nella sfera personale e in quella professionale e artistica. Dopo la promozione di Zeno il nostro vecchio batterista, Marco Pellegrino, ha scelto altre strade e si è trasferito a Milano per dedicarsi alla regia. Inoltre questioni molto importanti di natura familiare ci hanno obbligato a mettere da parte per un po’ il lavoro. Ma in verità non lo abbiamo mai perso di vista, sapevamo che prima o poi saremmo tornati in studio, quando sarebbe stato il momento giusto. Nel frattempo noi tre abbiamo anche seguito altri progetti. Marco Santoro si è dedicato alla video art e al suo progetto elettronico, Paolo Testa ha realizzato un altro disco con il suo duo Lapingra, io ho collaborato con molti artisti nelle vesti di produttore.

ASAP, il titolo dell’ultimo album, come lo dobbiamo interpretare? Significa accettare con ironia un rallentamento dei ritmi di produzione, pubblicare solo quando si ha veramente qualcosa da dire, evitare la ridondanza?

Sicuramente. C’è anche questo aspetto, ma più come conseguenza alla nostra riluttanza verso l’obbligo di fare qualcosa solo per la paura di non restare in pista e perdere il giro di ballo. Volevamo fare le cose con i nostri tempi, coerentemente con quello che stavamo vivendo e con la nostra visione della musica. Non abbiamo mai sentito la pressione di dover stare sul pezzo, presenti sulla scena a tutti i costi.

O forse è solo che il secondo album è il più difficile nella carriera di un artista?

Forse questo vale per chi ha fatto un primo disco di grande successo.

Cosa risponderesti al troll che sui social ti chiede: “Come mai dopo sei anni solo otto nuove canzoni?”

Gli direi di ascoltare almeno due volte ogni canzone, così arriva a 16.

Ci sono degli aspetti dei meccanismi discografici contemporanei nei quali non vi trovate?

Non tutte le discografiche ragionano allo stesso modo. Quindi è inutile generalizzare. Di sicuro ci sono alcune etichette indipendenti che hanno lanciato artisti che stanno avendo un enorme successo, e questo spinge le major a emulare questo meccanismo, anche se a volte il risultato è un po’ goffo. Quello che non ci convince è che spesso si punta allo sfondamento rapido, a costruire castelli di carta, a far apparire come grandi nomi gente che fino al giorno prima non aveva mai calpestato un palco. Poi i nodi vengono al pettine, i castelli crollano, mentre intasi il mercato e Spotify di playlist con migliaia di canzoni identiche, molte inaccettabili.

Quando ho ascoltato “la catena di montaggio sembra poesia da quassù” in “Vacanze su Marte” ho pensato meritasse un approfondimento. Ti va di spiegarmela?

È una specie di epifania, un osservatorio privilegiato. Le cose, viste da lontano sembrano più coordinate, più fluide, e sembrano avere un senso. Come atterrare di notte, quando passi nei pressi delle città illuminate. Vedi tutte le strade illuminate, gli edifici, le architetture, sembra tutto avere un senso e un disegno preciso. La catena di montaggio indica più la schizofrenia umana, nella quotidianità feriale, nella corsa al successo, nelle sgomitate, che vista a distanza sembra più lenta e sensata. E questa cosa, così umana e disperata, diventa un ritmo affascinante, come la poesia.

Spesso quando si scrive di musica si parla di “atmosfere oniriche” un po’ a caso, perché si dice. Nel vostro disco però il tema della notte è ricorrente, permea quasi tutte le canzoni, i contorni sono spesso morbidi, le luci sembrano sempre soffuse — dal primo singolo “Vivo di notte” a “6 e 45”. Al di là dei riferimenti musicali cosa ha influenzato la scrittura di questo album?

La notte di sicuro è una presenza costante. Ho lavorato per anni di notte, quindi ho avuto modo di apprezzarne il silenzio, la lentezza. Molti testi sono nati col buio fuori dalla finestra. Le canzoni sono ispirate da cose molto concrete, che hanno avuto un impatto sulla vita vera: la perdita, la malattia, le relazioni, il lavoro, la cronaca e la politica.

“Nel disco c’è sempre la necessità di avere una tregua, una pausa. Non siamo nati per correre e fagocitare tutto. Ci vogliono tempi più distesi. Altrimenti ti perdi pezzi di vita e nella frenesia neanche te ne accorgi.”

Un altro tema mi sembra di capire sia quello del tempo, o forse del rapporto che abbiamo oggi con il tempo. Che la notte sia l’unico momento della giornata in cui ci è ancora concesso evadere dall’isteria della quotidianità?

Potrebbe essere, anche se non dovrebbe. Non dormire fa molto male. Comunque si: c’è sempre nel disco la necessità di avere una tregua, una pausa. Non siamo nati per correre e fagocitare tutto. Ci vogliono tempi più distesi. Altrimenti ti perdi pezzi di vita e nella frenesia neanche te ne accorgi.
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=Q56OwVk3-KA]

A chi è venuta in mente l’idea di realizzare il video di “Siri” come se fosse uno scroll continuo, un passaggio frenetico da un’app all’altra?

L’idea è stata sviluppata da Emiliano Colasanti, nostro manager, con Gabriele Ottino, uno dei registi insieme a Sharon Ritossa. L’idea è quella di inserire frammenti di vita di una giovane musulmana, totalmente immersa nelle dinamiche occidentali, con le sue compagne coetanee italiane. Tutto sembra uguale, normale, se escludi i frame in cui compaiono scene di guerra.

Ho letto che la canzone è nata dopo che avete letto Kobane Calling di Zerocalcare. Vi è mai capitato di incontrarvi a Roma?

Purtroppo no. Sarebbe bello.

Ci consigli tre dischi belli da ascoltare dopo aver sentito ASAP?

Blonde, di Frank Ocean.

Black Star, David Bowie.

Donuts, J Dilla.


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