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Nel 1989 la docente universitaria Kimberlé Crenshaw coniava un concetto destinato a conquistare il movimento femminista e a rivoluzionare il nostro approccio alle disuguaglianze. Trent’anni dopo, è il momento di riprendere contatto con la storia dell’intersezionalità.

Trent’anni fa, nel 1989, Kimberlé Crenshaw, femminista e docente di Legge, coniava il termine “intersectionality”, “intersezionalità”. Oggi, a distanza di decenni, atenei universitari, associazioni culturali e organizzazioni femministe e antirazziste si ritrovano a celebrare l’anniversario di un concetto che ha cambiato per sempre l’approccio alla disuguaglianza sociale. 

Il termine “intersezionale” significa letteralmente “che riguarda più sezioni”. La teoria compare per la prima volta in un articolo accademico in cui Crenshaw prende in esame la posizione di svantaggio delle donne nere, con riferimento alle leggi antidiscriminatorie, al femminismo e alle politiche anti-razziste. Secondo Crenshaw le condizioni di oppressione sociale, come l’etnia o il genere, tendono spesso ad essere viste come delle categorie (o “sezioni”, appunto) svincolate l’una dall’altra, senza tenere in considerazione il modo in cui questi fattori interagiscono tra loro. In questo modo la condizione di chi si trova, come nel caso delle donne nere, nel punto di intersezione tra due (o più) motivi di oppressione non riesce ad essere pienamente descritta da nessuna delle due categorie, finendo per essere esclusa da entrambe. 

Per spiegare questa problematica, Kimberlè fa riferimento al proprio background giuridico e quindi ai casi giudiziari riguardanti episodi discriminatori nei confronti delle donne di colore. Nel 1976, ad esempio, Emma DeGraffenreid, madre lavoratrice afroamericana, fece causa alla General Motors insieme ad altre donne di colore. La società non assumeva donne nere da un decennio. Certo, assumeva persone afro-americane (uomini) e donne (bianche), ma non donne di colore. Questo bastò ai giudici per escludere che si trattasse di un episodio discriminatorio, sostenendo che non si potesse richiede un trattamento speciale per il semplice fatto di essere donne nere. Il caso DeGraffenreid risulta fondamentale nel capire il concetto di intersezionalità: la situazione di chi, per le proprie caratteristiche o la propria esperienza di vita, si trova a sperimentare più di una condizione di svantaggio sociale è specifica e non riducibile alla semplice somma delle discriminazioni che comprende. Così, l’esperienza delle donne nere, che non rientra né nella sola discriminazione razziale né in quella puramente di genere, tramite il concetto di intersezionalità riesce, invece, ad ottenere visibilità. 

Kimberlé Crenshaw nel 2018. Foto: Mohamed Badarne, CC-BY-SA-4.0, via Flickr

L’ipotesi sociologica presentata da Crenshaw viene subito ampiamente discussa in ambito accademico e legale, ripresa dai queer studies e dagli studi su genere ed etnia. L’impatto maggiore di questa teoria si ha, però, in relazione alle teorie femministe. La riflessione di Kimberlè Crenshaw, infatti, ha come punto di partenza proprio il cosiddetto “femminismo nero” che per anni ha svolto un’analisi fondamentale sulla posizione delle donne di colore all’interno dei movimenti femministi occidentali, spesso prevalentemente focalizzati sulle problematiche delle donne bianche. 

Nel suo articolo, Crenshaw fa riferimento a numerose autrici femministe nere. Tra queste c’è Sojourner Truth che a metà Ottocento scrive il famosissimo brano “Ain’t I a woman?”, “Non sono forse una donna?” smantellando, tramite la sua esperienza di donna nera sotto schiavitù, i pregiudizi che allora vedevano gli individui di sesso femminile come incapaci di lavorare e dunque troppo deboli e fragili anche per entrare nella vita politica. Questo brano è diventato un simbolo della lotta femminista ma, come fa notare Crenshaw, la storia di Sojourner è decisamente diversa da quella delle donne bianche statunitensi che in quegli anni lottavano per il suffragio: è una storia di schiavitù, di profonda discriminazione razziale, di lotta per la libertà e di come queste esperienze si leghino inscindibilmente al suo essere donna. Crenshaw cita poi Anna Julia Copper, ma anche Angela Davis e Deborah King, femministe nere che tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo hanno portato alla luce la sottorappresentazione delle donne di colore, il complesso rapporto tra genere ed etnia e il modo in cui questo veniva spesso ignorato dai movimenti antirazzisti e dallo stesso femminismo. 

Angela Davis (a destra) insieme a Walentina Tereškova durante una manifestazione a Berlino nel 1973 / Wikimedia Commons

Il femminismo occidentale, infatti, sia nella cosiddetta “prima ondata” (tradizionalmente identificata con la fase di lotta per la conquista del diritto di voto) sia nella “seconda ondata” (considerata la fase che, intorno agli anni ‘70, ha visto le donne battersi per una maggiore emancipazione a livello familiare, lavorativo, sessuale) è stato ampiamente criticato per la sua mancanza di inclusività. Il movimento traeva il suo punto di partenza dalle esperienze delle donne bianche eterosessuali di classe media e tendeva a considerare le problematiche delle donne nere (ma anche lesbiche e transessuali) come estranee rispetto all’agenda femminista. Le discriminazioni di genere venivano viste dalle femministe bianche eterosessuali come l’unico problema da affrontare proprio perché esse si trovavano a far fronte unicamente ai problemi legati al loro essere di sesso femminile. Inoltre non consideravano che l’essere privilegiate a livello di etnia, orientamento sessuale (e spesso anche estrazione sociale) non solo le poneva in una posizione di potere rispetto alle altre donne, ma contribuiva a limitare la loro esposizione al sessismo stesso. 

È quindi sulla scia di queste opere di critica al femminismo occidentale che Kimberlé Crenshaw introduce la propria teoria, sviluppando una metafora e uno schema di pensiero in grado di comprendere tutti i casi di “intersezione” tra le diverse categorie di discriminazione. Coniato in ambito accademico, il concetto di intersezionalità invade, lentamente, anche il mondo dell’attivismo, diventando negli anni sempre più popolare. Nel 2015 il termine “intersezionalità” viene inserito nell’Oxford English Dictionary, mentre riflessioni e commenti su questo concetto escono dall’ambito universitario per entrare sempre più nella stampa mainstream. Alla Marcia delle Donne a Washington, nel 2017, i cartelli parlavano chiaro: “Se non è intersezionale non è femminismo”, “Il femminismo senza intersezionalità è solo supremazia bianca” e ancora “Se non lotti per tutte le donne non lotti per nessuna”. 

Foto dalla Women’s March di Concord, NH, nel 2019. Via Flickr

La “quarta ondata” femminista, collocata a partire dal 2012 e fortemente influenzata dal mondo del web e dei social, è inscindibilmente legata a questo termine: il quarto femminismo è il femminismo intersezionale. Questo lo si vede in ambito accademico, nell’approccio didattico degli Women’s Studies, nella ricerca femminista, ma anche nell’attivismo: il movimento deve sì partire dalla posizione delle donne nella società, ma questa dovrà essere declinata nelle sue numerose intersezioni con etnia, disabilità, condizione sociale, orientamento sessuale e tutte quelle discriminazioni che finiscono per influenzare l’esperienza in quanto donna. L’intersezionalità, però, non si limita al femminismo. Essendo uno strumento di lettura della disuguaglianza sociale, l’approccio intersezionale è stato utilizzato sempre più in diversi campi: dai queer studies agli studi sulle migrazioni e il post-colonialismo, dall’ambito legale a quello sociologico e storico, dai movimenti antirazzisti a quelli per le persone disabili. È proprio la sua natura particolarmente versatile ad aprire a possibilità applicative potenzialmente infinite. 

A trent’anni dalla sua teorizzazione, si può affermare senza dubbio che questo concetto abbia davvero portato a un cambiamento fondamentale nell’approccio alla disuguaglianza sociale. Questo, però, non è certo avvenuto senza critiche e opposizioni. Il concetto di intersezionalità viene spesso considerato rischioso per i movimenti di giustizia sociale perché, secondo alcuni, tende a porre l’accento sulle diversità piuttosto che sui punti in comune e a creare una sorta di gerarchia nel livello di discriminazione subìto. Un’altra critica ricorrente è che, creando delle diramazioni dalla “causa principale”, l’approccio intersezionale faccia perdere il focus dei movimenti stessi ampliando eccessivamente l’ambito di azione. Ultimamente, poi, il termine intersezionalità viene spesso male interpretato o semplicemente usato ignorandone il significato e la storia, come una sorta di slogan da applicare a tutti i contesti perchè ormai svuotato di significato. Dall’altro lato, invece, si è anche assistito ad una iper-teorizzazione del concetto con articoli accademici e dibattiti volti a sviscerare il significato astratto di questo approccio, a delimitarne l’ambito di applicazione e a creare una serie di norme che lo regolino. Di fatto, il rischio è di perdere il contatto con l’originario significato di intersezionalità e con il suo background di partenza. 

Come ha fatto notare la stessa Crenshaw in un recente discorso all’Università di Westminster, l’intersezionalità è un modo di vedere le cose, uno strumento per analizzare la realtà. La parola in sé, svincolata dalle esperienze di vita, rimane solo un guscio vuoto. L’intersezionalità ha senso nella misura in cui porta a un cambiamento reale: se contribuisce a dare visibilità alle donne nere uccise dalla polizia negli Stati Uniti, se spinge ad approvare misure che tutelino le donne transessuali, se porta a un dialogo concreto tra il femminismo e il mondo LGBTQ+, se contribuisce a portare maggiori sfumature nelle leggi contro le discriminazioni. Fare il punto della situazione dopo trent’anni serve proprio a questo: a riprendere contatto con la storia dell’intersezionalità per riuscire a farla propria. Solo in questo modo è possibile fare di questo strumento una chiave di lettura per la nostra società in grado di portare a cambiamenti concreti. 


Elisabetta Moro ha completato un Master in Women’s Studies all’Università di York e scrive di donne, femminismo e pop culture.

In copertina: una foto dalla Women’s March di New York, gennaio 2018. CC BY 2.0 Alec Perkins, via Flickr.