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Cecilia Ghidotti, in “Il pieno di felicità,” usa la propria storia come lente attraverso cui raccontare le sfide della nostra generazione, oppressa da una società e da un modello economico affaticati.

Il pieno di felicità, titolo del libro di Cecilia Ghidotti, appena pubblicato da Minimum Fax, è una sensazione che sembra essere preclusa alla nostra generazione. Se volessimo descriverla, potremmo dire che corrisponde alla pienezza che scaturisce dal raggiungimento di alcuni obiettivi fondamentali (casa, lavoro stabile, per chi vuole una famiglia o comunque una stabilità negli affetti) per impostare la propria vita su un binario di certezza, senza piú dover fare i conti con cosa stiamo facendo e perché. Il pieno di felicità è un libro che rientra appieno nel genere non-fiction e in effetti, leggendolo, di finzione se ne rintraccia poca. Emerge piuttosto la necessità di capire com’è andata attraverso il racconto aperto, intimo e personale. Ci abbiamo fatto una chiacchierata via Skype per saperne di più.

Ciao Cecilia come stai e cosa stai facendo?

Sto bene grazie, al momento mi trovo a Camden Town, ospite di un’amica e oggi è una splendida giornata di sole che spero si conservi così. Appena finito di chiacchierare con te partirò alla ricerca di una biblioteca universitaria dove lavorare al famigerato dottorato numero due, molto citato nel libro.

 

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La prima citazione del libro, tratta da Come diventare una ragazza di Caitlin Moran è eloquente: “è milioni di volte più semplice essere cinica e brandire una spada, piuttosto che essere sincera e stringere in mano un palloncino e una torta di compleanno, con una possibilità sconfinata di apparire ridicola.”

Questo libro è percorso da un grande rancore. Raccontare in maniera così scoperta e vulnerabile una storia personale è stato un grosso passaggio per uscire dal risentimento al quale le conseguenze di determinate scelte o accadimenti, mi avevano consegnato. Per molto tempo la mia attitudine si è mossa tra cinismo distaccato, rabbia paralizzante e una specie costante lamento. Al contrario la disposizione descritta da Moran è quella di una vulnerabilità consapevole, una positività non semplice, un atteggiamento che mi ha guidato nella stesura del testo, ma che al contempo guardo come a una meta a cui tendere. Il rivendicare la possibilità, anzi l’esigenza, di non avere troppe sovrastrutture nell’andare per il mondo, di non dover essere per forza i fighi che fanno le cose giuste, di non avere troppi schermi esterni, è una cosa che letta nei libri di self-help mi fa storcere il naso, ma che contenuta nelle parole di una scrittrice e giornalista a me affine e il cui percorso mi stimola, accetto. Inoltre lei viene da una zona dell’Inghilterra vicina a Coventry, Wolverhampton, e spesso racconta di quel territorio, quindi la sua scrittura mi è servita a capire meglio il luogo dove mi trovo tuttora a vivere.

Rancore verso te stessa, verso gli altri o verso la vita?

Verso un’idea molto astratta e infantile, “il pieno di felicità” appunto che non è altro se non il pensare che ad un certo punto della mia vita avrei raggiunto una fase stabile di soddisfazione e contentezza. Se avessimo trovato lavori soddisfacenti e ben pagati nell’ambito per cui avevamo studiato, se fosse fattibile lavorare in università dopo averle dedicato dieci anni di vita, forse ci sarebbero state le condizioni strutturali per questo agognato stato di grazia. Certo, il discorso non è solo soggettivo, rientra anche l’insoddisfazione nel constatare l’esaurirsi dell’orizzonte politico. Penso ad esempio al movimento no-global del 2000, là c’era molta partecipazione e io stessa ero convinta che quelle risorse messe in campo ci sarebbero servite per fare qualcosa di bello, per avere una vita migliore, che il millennio che si stava aprendo sarebbe stato davvero un tempo migliore. Boccalona io a crederci, ma eravamo adolescenti. Inoltre vivere per anni in una città piuttosto politicizzata come Bologna, vedere e seguire la crescita di esperienze e spazi sociali (penso ad esempio a tutto il percorso intorno a Bartleby tra 2008 e 2010) e vedere che poi quegli slanci si esauriscono, genera un’idea di sconfitta che a volte arriva senza magari essere stati nemmeno del tutto coscienti della battaglia in atto. O meglio, lo sapevamo, ma la lotta era, ed è, talmente parcellizzata e diffusa, che si finisce per ritrovarsi a fare i conti in solitaria, avendo l’impressione di aver sbagliato qualcosa, di essere rimasta fregata, di non essere state abbastanza resiliente. Resiliente nel senso più neoliberista del termine, quello per cui ti colpevolizzi di non aver messo insieme tutte le risorse possibili per raggiungere l’obiettivo. Questo si muove dietro al termine rancore, dal quale si esce anche con le stupidaggini, la solidarietà tra persone che hanno esperienze e frustrazioni simili, i gruppi whatsapp, i meme, i film, i libri, i concerti, le serie tv.

Il concetto di resilienza ora è usato nella cultura neoliberista, per scrollarsi di dosso ogni responsabilità di sistema. Se sei depresso e non ce l’hai fatta è colpa tua e di nessun altro.

Purtroppo sì e non è affatto così, il problema è strutturale. Basta leggere, ad esempio, Fisher e il suo Realismo capitalista.

Da fuori sembrano tutti più risolti di noi, più preparati, più sicuri.

La tensione verso l’arrivare ad essere risolti in maniera definitiva è anche una specie di nostalgia dell’interezza che il tendere a ciò ti dava, insieme alla costante consapevolezza che quella cosa non esiste. Almeno per me non esiste, ma penso nemmeno per gli altri. Il grado di consapevolezza relativo a questa cosa varia moltissimo da persona a persona, da ambiente ad ambiente. Torniamo al boccalona: io tendo a credere che se le persone si presentano risolte, lo sono davvero, quando invece spesso sono bravi a dissimulare. Questa cosa l’ho imparata molto in seguito all’immersione nella cultura accademica britannica, dove si dà per scontato che si proceda senza farsi tante domande sul senso delle cose, anche quando il senso delle cose dovrebbe essere proprio la tua materia di studio.
Nei momenti buoni penso che l’importante sia costruirsi una comunità di affini e tirare avanti con quella, senza avere troppe pretese di cambiare testa alla gente. Coltivo la speranza che questo sguardo mi apra ad una maggiore comprensione della realtà, poi magari non è così e vivo solo peggio. Quando ho momenti di nostalgia nei confronti della Pianura Padana, da cui vengo, mi chiedo se davvero tornerei indietro a vivere lì o se invece sto meglio ora, con tutte le contraddizioni che questo comporta. Forse vincono le contraddizioni, insieme all’ambizione a vivere una vita piena e stimolante, nonostante ci siano delle conseguenze, soprattutto emotive quando entro in contatto con esistenze più stabili o solide. Però alla fine mi piace come vivo.

 

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Preferendo persone sensibili che non chiedono, non vogliono sapere a tutti i costi, se non tutte in grado di portarci all’apertura totale. Pensi che alcuni vivano misurandosi costantemente con gli altri e in qualche modo traggano beneficio dalle disavventure altrui?

Non penso che le persone facciano domande sul tuo “stato dell’arte” con l’intento specifico di volersi sentire meglio, voglio pensare si tratti di automatismi del discorso, di domande di rito. Invece che parlare del tempo si parla delle scelte di vita, anche se l’argomento non è neutro. Poi sono io la prima a sentirmi addosso l’ansia. Nel libro spesso metto in bocca ad altri domande che mi faccio io stessa. L’interrogazione continua avviene, ma spesso davanti a uno specchio. A livello narrativo però, funzionava meglio se mi costruivo intorno un coro. I miei genitori non passano il tempo a chiedermi cosa faccio, sperano solo che stia il meglio possibile. Ci sono persone che ho disegnato in maniera più inquisitiva e crudele di quanto siano realmente e ciò per una pura esigenza narrativa. Alcuni godono degli insuccessi altrui, ma se parliamo dell’ambito accademico la ruota gira ed è tutto relativo. Una volta sono io che perdo un bando, la volta dopo succede a te.

Ad un certo punto del racconto tu e il tuo compagno Simone, andate a un matrimonio. Un po’ speravamo tutti che le situazioni in cui si è obbligati a discorsi di convenienza non si presentassero e invece eccole qui.

Io arrivo all’età adulta fuori tempo massimo e mi prendo la responsabilità del fatto che alcuni lettori penseranno “a queste cose ci potevi arrivare prima”, ma è la mia storia. Nella gamma di esperienze rientra anche imparare a fare i conti con alcuni riti caratterizzanti dell’età adulta e il matrimonio è uno di questi. Altri, per molti di noi, sono andati persi: comprare casa per esempio o un lavoro a tempo indeterminato. Alcune tappe però, tipo il matrimonio, restano, talvolta in forma di simulacro. Le persone continuano a sposarsi e ad avere dei bambini e sono scelte che rispetto molto e per le quali ci vuole tanto coraggio e fiducia nel futuro. Io sono molto più pavida.

Ogni tanto è piacevole rifugiarsi nell’estremo relax rappresentato dall’andare a trovare un’amica a Ferrara, in occasione del festival di Internazionale Axe non conoscere nessuno, non dover dare nessuna spiegazione, come racconti nel libro.

Ogni tanto è rilassante non doversi raccontare. Dopo un anno passato a spiegarsi in un altro paese e un’altra lingua, andare a traino in una città bella come Ferrara, era un privilegio che volevo raccontare su carta.

Nel libro c’è una frase ricorrente: “prendiamocela come viene, come abbiamo sempre fatto. Finora ha funzionato, no?”. Vediamo come va questo secondo dottorato, questo trasferimento per amore a Coventry, senza definire nulla.

Nel momento in cui io non ho più accesso a un lavoro stabile, a un’identità definita, faccio del “prenderla come viene” la mia personale alternativa al matrimonio. “Vediamo come va” non è evitare il problema ma dire “ queste sono le condizioni strutturali e le conseguenze delle scelte fatte.” Non ho il coraggio di prendere decisioni in maniera definitiva e un po’ non posso nemmeno, ma al tempo stesso ho bisogno di una formula per progettare il futuro nell’incertezza. Scelte come quella di trasferirsi sono difficili e potenzialmente senza via d’uscita; dirle ad alta voce spaventa, almeno me, perché implicano sofferenza e rinunce. “Vediamo come va” è una difesa rispetto alla chiara irreversibilità di questo tipo di decisioni. Tutte le mie scelte recenti vanno nella chiara direzione di abbandonare l’Italia, di continuare vivere in un paese che non mi piace e molto di questo avviene perché ho scelto di investire sulla mia relazione. Allo stesso tempo, dal mio punto di vista, dire “vivremo sempre insieme per sempre uniti nel vincolo del matrimonio” è paralizzante e “vediamo come va” è una specie di formula magica che rovescia la prospettiva mantenendo lo stesso significato, nonostante dica la cosa opposta. Sì, è profondamente scaramantico, insensato, irrazionale. Diró una banalità che potrà sembrare riduttiva e che non vuole assolutamente essere snob: se studi per anni determinate analisi critiche della società, diventi sospettoso nei confronti delle grandi narrazioni dominanti e ti abitui a decostruire, sei più disincantato.

Su che arco temporale si svolge la tua storia?

Cinque anni, ma la timeline non è affatto lineare. La narrazione salta continuamente e l’effettiva cronologia del libro è di tre anni e qualche mese, all’interno dei quali ho condensato cinque anni di incontri e esperienze. Alla base del libro c’è la volontà di capire quando le cose hanno preso la piega che sto vivendo adesso. Non c’è stato nessun episodio epocale, nessuna scelta definitiva o traguardo che di solito scatenano tutta una serie di fatti significativi. Il cambiamento è rappresentato dal trasferimento in Inghilterra, a Coventry che però non è avvenuto nel fragore di porte sbattute, ma al contrario si è trattato di una serie di micro-cambiamenti di prospettiva, di itinerari che si discostano leggermente da quello che avevi pensato di fare e che sommati mi hanno portata davvero lontano da dove credevo di andare e da dove credevo di essere. Il continuare a saltare dal passato al presente narrativo, nel libro, serve proprio a capire quando, come e perché questi cambiamenti si siano verificati.

Un concetto molto interessante che ad un certo punto introduci è quello della femmina piangiolina, ben esplicitato nel passaggio “come per tutte le cose che negli ultimi anni avrei voluto si realizzassero, ma non si sono realizzate, mi convinco che non me ne importava così tanto.”

Anche questa si tratta di una frase che suona meglio letta al contrario: ci soffro come un cane, altroché. In quelle pagine, da un lato tento di rintracciare le origini di questa tendenza nell’infanzia, dall’altro metto in scena un processo di autoconvincimento: mi dico che non mi interessa qualcosa che, per mille motivi, in quel momento non è realizzabile e che è meglio guardare altrove. Questo, come ripeto anche nel libro, è successo a proposito della tesi sui romanzi sugli anni Settanta italiani: non sono mai riuscita a fare quello che avrei dovuto fare, ossia trasformarla in un libro. Nelle discipline umanistiche, almeno nella mia esperienza, ci devi mettere molto di tuo per dimostrare che ciò che dici manca, non è stato detto, è necessario al dibattito e io da sola non ce l’ho fatta. Il supporto per fare il libro invece c’è stato, possiamo parlare di sliding doors, ma c’è mancato poco che non ci fosse e il libro non esistesse. Insomma, spesso quando diciamo che non ci interessa, non è così. Per me fa sempre parte del discorso sull’andare in giro col palloncino, del dire i propri desideri liberamente. Mentre scrivevo pensavo “che arroganza, che vanità nel raccontare la mia storia”. Poi pensavo al palloncino della Moran e prendevo la rincorsa.

Nel nostro mondo, paradossalmente, sarebbe stata accolta meglio la fine di una relazione per via delle esigenze lavorative di uno o di entrambi, che non si accordano più, piuttosto che lasciare tutto per seguire il partner. Per altri strati sociali, non seguire il fidanzato/marito sarebbe inconcepibile.

C’è una specie di doppia costrizione. Da un lato l’imperativo di seguire quel che vuoi fare, dall’altro il fatto che spesso seguire i tuoi sogni non include che tu tenga conto dell’altra persona e se lo fai sei guardato con una sottile commiserazione. Il percorso di carriera in università è costruito per lo più per per un uomo giovane, senza legami, disponibile ad un’estrema mobilità. Sicuramente parte del racconto voleva, se non aprire un dibattito sul tema, evidenziare che le scelte legate agli affetti sono ugualmente  legittime e comportano delle conseguenze che raramente vengono sostenute e tutelate. Peraltro credo che se fossimo stati sposati, nessuno o quasi si sarebbe sentito autorizzato a chiedermi “sicura”? Poi c’è un altro aspetto legato al fatto che, nella precarietà generale, l’unico elemento della mia quotidianità in cui, mettendoci molto impegno, mi sembra di essere riuscita costruire qualcosa è proprio la mia relazione con Simone, per cui perchè non ammettere che orienta le mie scelte?

Nel tuo libro parli anche di ipocondria, fobia dell’epidemia di ebola, sensazione che arrivi il cataclisma a toglierci di mezzo le nostre responsabilità, obblighi.

Nel libro il discorso sull’ipocondria è persino un po’ smorzato rispetto a come talvolta mi investe. Si tratta di piccoli accenni qua e là, sia a livello personale che globale. A livello globale ci confrontiamo continuamente con l’idea dell’apocalisse, dell’estinzione verso cui stiamo tutti viaggiando, ma allo stesso tempo siamo tutti incredibilmente attaccati alla vita e ci preoccupiamo di ogni minima variazione nel nostro corpo. Personalmente ho avuto problemi di depressione, diagnosticata da un medico e per la quale ho dovuto prendere medicine, in questo senso non volevo fare il manifesto di un malessere generazionale.

 

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Però questo elemento rientra in un quadro spesso costituito da altri fattori già presenti nella tua storia (la non realizzazione, la voglia di spostarsi sempre, lo svicolare le domande serrate). In qualche modo la sua presenza non mi ha stupito.

Certo, si può anche tornare a Fisher, al discorso che il capitalismo avanzato e la depressione sono strettamente legati. Nel mio caso è stata legata al vuoto di senso che si è creato una volta consegnata la tesi del primo dottorato, quando mi dissi “e ora che faccio? Riempiamo questa cosa con il pensiero di sacco di malattie immaginarie, mie ed altrui!”

A un certo punto nomini la “sindrome dell’impostore”, tema su cui si fanno workshop mirati nell’ambiente accademico britannico, come racconti nel libro.

La sindrome dell’impostore è la sensazione di non essere mai bravi abbastanza e spesso si lega alla necessità di essere perfetti e al timore che non lo sarai mai davvero (ovvio che non lo sarai mai!). Questo disturbo mina anche la propria sicurezza in termini più subdoli, facendoci sentire inadatti a parlare di qualcosa, come se stessimo rubando il posto a qualcuno che certamente ne sa più di noi. Si tratta di una conseguenza dell’incapacità di fare i conti coi propri limiti, essendo stati abituati a pensare che avremmo fatto tutto al top. C’è da dire tra i mille workshop sul tema, organizzati qui in università, il modo con cui si affronta la necessità di “competenze”  è declinato in una maniera che comincia a darmi fastidio.

All’inizio era interessante, poi ho iniziato a notare che spesso si risolve tutto in lezioni mirate a fornire gli strumenti per “manage yourself” in maniera efficiente quindi non tanto con l’intento di stare meglio, ma per uscire dalla paralisi e continuare a produrre. Io dico: “viviamola questa famigerata sindrome e capiamo perché stiamo così!”. Potrebbe per esempio trattarsi di una situazione di squilibrio di potere in ambito professionale e a quel punto non saremmo noi con la sindrome dell’impostore, ma la struttura ad avere dei problemi. O ancora, se non sento di essere pagata adeguatamente per quel che faccio, quindi lavoro male, mi sento un impostore. Io insegno in un master in cui gli studenti arrivano soprattutto dalla Cina e molto spesso non mi riesce bene, perchè non mi vengono dati tempo, soldi e risorse per lavorare meglio. Tutto ciò non si destruttura con la mindfulness o con la respirazione di gruppo, ma con la coscienza della situazione in cui si è immersi e magari avendo gli strumenti per tirarsi fuori. Si tende spesso a interiorizzare credendo di essere degli impostori, ma non è così.

Da questo punto di vista i paesi anglosassoni sono abbastanza tossici.

Parecchio. Conosco molte persone, soprattutto in ambito accademico, che soffrono di questa sindrome e spesso sono professoresse con curricula da paura. Il problema sta ancora una volta nel si tratti di questioni private, risolvibili in maniera volontaristica, mentre andrebbe tenuta sempre presente una dimensione collettiva. Mi rendo conto che suoni paradossale detto da me che ho scritto un libro in cui non faccio che dire “io”. Per chi vuole approfondire segnalo Entreprecariat di Silvio Lorusso, dedicato proprio alla decostruzione dei presupposti del discorso tossico per cui dovremmo tutti essere entusiasti imprenditori di noi stessi.

Nel libro parli a più riprese della cultura di massa versus la cultura di nicchia, partita che si gioca su più piani: razza, classe sociale, genere. Per chi non ha avuto la possibilità di accedere facilmente a vari strumenti è più difficile spostarsi da dove si è.

Il discorso su cultura popolare e di massa sarebbe molto lungo. Nel libro racconto di un movimento di uscita da una disposizione molto elitaria rispetto alla cultura, un processo di apprendimento che porta a capire che non è solo la cultura alta, ma anche quella popolare, a poter essere considerata legittima, passaggio che per me ha significato una crescita fondamentale.

Poi relativamente all’accesso alla cultura giocano molti fattori, come dici tu. Il genere è uno di questi e penso subito a quanto sia recente l’accesso in massa delle donne all’università, per non parlare delle acquisizioni legislative come le leggi su aborto, divorzio e sullo stato di famiglia. Parallelamente a questo vanno però tenuti in considerazione una altri fattori (classe, razza, preferenze sessuali, ethnicity) che influenzano e orientano il tipo di traiettoria che uno può compiere.

La vita nomade e precaria a cui ci costringe la saturazione dell’ambiente culturale, ha qualche lato stimolante. A parte Coventry, dove vivi con il tuo ragazzo, ti muovi tra amici e Airbnb. Probabilmente non smaniamo di appartenere ad un posto, di fermarci per sempre, ci piace sapere che deve ancora succedere qualcosa.

Indubbiamente c’è una grandissima ricchezza in tutto questo muoversi, che poi è anche la cosa che personalmente mi salva. Il Primavera Festival a Barcellona, ad esempio; bellissimo che esista e che, pur nella condizione di incertezza generale, possa ancora permettermi di andarci. L’esistenza precaria che conduciamo, spesso comprende una dimensione di esperienze arricchenti come festival e eventi sparsi in giro cui si può partecipare. Ammetto senza problemi che quando posso mi prendo tutto questo con voracità e decisione perché son cose che fanno bene e che mi piace fare. È un gran privilegio. Siamo europei privilegiati, abituati, per ora almeno, a muoverci in Europa senza chiedere alcun visto. Ora che vivo qui, mi sono resa conto della potenza del mio passaporto, per esempio quando ho visto il procedimento cui i miei colleghi non europei devono accedere per il visto e le limitazioni e gli obblighi, soprattutto in termini di libertà di movimento, che questo comporta.

Cosa farai se Brexit sarà?

Siamo cresciuti con la narrazione di un’Europa senza muri. La Brexit, a me almeno, ha fatto realizzare che l’Europa unita era una configurazione molto più debole e instabile di quanto pensassi, che le traiettorie progressiste che l’hanno costituita potrebbero essere transitorie e reversibili. Dal punto di vista burocratico, al momento,i cittadini europei che stanno nel Regno Unito da più di cinque anni hanno la possibilità di fare l’application per una cosa che si chiama Settled Status, che dovrebbe consentire di godere degli stessi diritti di quando c’era l’Unione Europea senza dover chiedere la cittadinanza, per cui direi che ancora una volta ci sta andando bene.

Tutte le foto dall’account Instagram di Cecilia Ghidotti, @casamammolo