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“Nascondi la macchina fotografica sotto la giacca,” mi suggerisce Riky, il direttore dell’American Language Center Casablanca. È un uomo basso, con un cappello floscio e due occhi astuti che riesci raramente a penetrare.

Pensavo avesse al massimo una quarantina d’anni invece mi ha stupito con un bel cinquantuno pieno d’orgoglio e mille viaggi in giro per il mondo per poi fermarsi in una situazione comoda, in un ruolo di potere politico e agiatezza economica che gli permettono di vivere il suo lavoro con divertimento, come un hobby per non annoiarsi. È solo. Non soffre. Almeno così mi vuol far intendere.

È un venerdì di dicembre, a Casablanca la temperatura è perfetta, in corpo abbiamo una bottiglia di vino rosso marocchino e un’entrecôte presa in un ristorante per ricchi in un quartiere per ricchi dove i poveri hanno divise blu e si occupano di tenere pulite Porsche e Maserati con la cura che riservereste a un cavallo da corsa.

I buttafuori sono grossi e col piumino sono ancora più grossi, ma se non gli rompi i coglioni ti chiamano “azizam,” ti danno le carezze e pure tu se vuoi puoi chinare il capo, unire le mani davanti al petto, dire “shukran” e dargli una pacca sulla spalla o sulla pancia se sei un tipo propenso al rischio. Gli do una pacca sulla pancia.

Entriamo, la luce è bassa, quello che si vede è solo illuminato di taglio da certe lucette cinesi rosse e blu che si muovono a caso.

Il volume è alto, cassa dritta e un reggaeton arabeggiante in sei ottavi, il centro della sala è vuoto per chi vuole ballare mentre l’ossigeno manca, soffocato dal fumo di Marlboro finte.

Non mostro sorpresa, evitando di far intendere che non conosco le regole non scritte di questo posto, provando a sembrare anche un po’ divertito, per far capire che sono un tipo OK. Ci indicano due sedie in fondo alla sala, una è occupata da un gatto.
Optiamo per il piano di sopra, ci affacciamo poi scendiamo immediatamente.
Donne sole sedute ai tavoli che fumano davanti a piatti di olive e cetrioli. Ovviamente si tratta di prostituzione da duecento Dirham, venti euro. Quaranta contrattabili per me che ho una felpa gialla e la macchina fotografica al collo e anche se sembro marocchino non parlo arabo né francese.
Torniamo al piano di sotto, ci fanno posto in modo da non disturbare il gatto il quale rimane a farsi fare le coccole sulla sedia in mezzo fra me e Rik.

Solo in questo quartiere ci saranno quattrocento locali come questo in cui uomini come il ragazzo sotto al televisore urlano pezzi conosciuti ai più con la fronte fradicia, gli occhi bianchi ed entrambe le mani rivolte al cielo, in una mano una sigaretta, l’altra libera per far ballare le dita aperte verso l’alto. La testa ciondola a destra e sinistra e il mento sfida altri a cantare più forte di lui se ne sono capaci. Una ventina di bottigliette di birra locale da 0,25 rimangono come trofei vuoti sul tavolo. Come sempre, è da solo.

Non so come spiegarvi perché a Milano non mi diverto più e non riesco a stare fermo in un locale a bere. Sarà che i due tizi davanti a me si stavano per menare di brutto e ora si baciano. Sarà che in Europa c’è una regola per tutto. Sarà che per avere un gatto in un bar c’è una legge apposita per cui ci possono essere un massimo di tot gatti per metro quadrato, un permesso speciale, un nome del cazzo che serve per brandizzare un’idea che non si può neanche dire che sia stata copiata perché che idea è avere dei gatti in un bar e file di persone che attendono per entrare e farsi una story con orecchie da gatto e uscire subito dopo e dimenticarselo dopo ventiquattro ore.

Qui per avere un gatto in un bar tieni la porta aperta, se al gatto piace il tuo locale ci ritorna altrimenti non lo vedi più, così come tutti gli altri avventori.

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Ho ventisei anni, sono nato in Italia, mio padre è arrivato a Perugia quando aveva la mia età, ora ne ha più di settanta. Mia nonna tedesca è arrivata qui quando ne aveva poco più di venti, ora ne ha più di novanta eppure per il sistema musicale italiano io sono esotico, faccio musica etnica. Solo per il nome, se mi chiamassi Davide Araldi le recensioni parlerebbero di musica elettronica pop di matrice nordica invece uno dei progetti con cui collaboro è stato recentemente definito “Nick Cave se fosse nato nei balcani.”

La cosa pazza è che anche quando suono in Marocco sono esotico.

Esotico è ciò che viene da fuori, ma da fuori dove? Qual è il limite oltre il quale esiste “l’altro”?
“Altro” è un termine utile all’identificazione per negazione, delineo la mia identità dicendo “io non sono quello” per evitare di prendermi la responsabilità di dire “io sono questo”.

Mathias Enard, orientalista francese, fa un ritratto inquietante di come sia stato creato il mito dell’Oriente. In un processo etnocentrico i borghesi annoiati cercavano un’alterità in cui scappare e hanno delineato delle caratteristiche dell’Oriente dei loro sogni tramite un processo di negazione della loro realtà: un Oriente spirituale, mistico, pieno di significato, esoterico.
Poi hanno cercato conferme delle loro idee in viaggi oppiacei, traduzioni perlopiù errate e visioni distorte. Così facendo hanno creato un’idea di alterità a partire dal negativo della propria identità quando invece l’Oriente ha un suo modo di stare al mondo ed entrambi sfumiamo lentamente gli uni negli altri. Non hanno scoperto l’oriente ma criticato l’occidente.

Così mi domando, se sono percepito come esotico ovunque, quali sono le caratteristiche che rendono una musica “proveniente da fuori” se questo fuori non ha luogo? È un processo di pura post-verità in cui basta cambiare il nome e la presentazione per cambiare completamente la percezione? Quanti altri prodotti artistici sono apolidi? Quanti altri prodotti artistici non hanno alcun valore di per se stessi ma tramite una presentazione astuta viene creata un’aspettativa, una giustificazione culturale ad un prodotto livellato, privo di alcuna energia migliorativa?

Nel frattempo il treno fra Kenitra e Marrakech scorre a velocità normale, l’uomo davanti a me è marocchino, ha la pelle chiara e sembra monzese, uno di quelli che vivono in Brianza e hanno origini calabresi. Ha una felpa Adidas verde  in acetato come la mia, anni novanta, con la zip.
Guarda fuori dal finestrino, c’è il parcheggio di un McDonald’s.

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“Nascondi la macchina fotografica sotto la giacca” è il primo episodio di una serie di avventure che verranno pubblicate su the Submarine e che stanno succedendo a Damon in questi giorni di tour in Marocco, dove sta portando dal vivo i pezzi del suo progetto solista.

Damon Arabsolgar è un ragazzo di origini miste, nato per caso a Milano e cresciuto in un posto pazzesco dal nome esotico di “Lavanderie di Segrate.” Suona nei Pashmak, nei Mombao e con il suo progetto solista solo piano e voce.

Negli ultimi anni ha suonato in Europa, Italia, nei Balcani, dalla Slovenia alla Macedonia passando per il Kosovo, e poi si è spinto fino a Yekaterinburg, in Russia. Al momento sta facendo il suo secondo tour in Marocco. Viaggia con una macchina fotografica analogica e scrive storie di viaggio accadute realmente. Ha pubblicato un reportage russo su Rockit e uno Marocchino su Lomography.
Per il resto scrive, fa foto, sound-design e nel tempo libero fa il magazziniere per Cabana Magazine.
Raramente si ricorda di portare giù la spazzatura (scusa Lore).


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