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in copertina, a tavola con i ministri, via Facebook

La battaglia anti-globalista del governo diventa economica soltanto quando può favorire e arricchire di populismo la propaganda elettorale perpetua.

Negli ultimi decenni, le dinamiche di portata internazionale di cui i governi sono stati complici più che diretti responsabili — come il lungo processo di globalizzazione e e liberalizzazione dei mercati — hanno spostato il baricentro del potere decisionale dagli organi nazionali a quelli sovranazionali, determinando l’indebolimento del parlamentarismo liberale. L’avanzamento dell’interconnessione globale, però, è stato tanto forte – e brusco – in campo economico, quanto debole e insufficiente sul piano sociale e politico.

La pretesa di elevare a “globali” dinamiche proprie delle economie occidentali più avanzate ha avuto effetti disomogenei nel mondo, favorendo di fatto l’internazionalizzazione di poche grandi aziende a discapito di tutte le altre. Dinanzi a queste problematiche, l’incapacità dei partiti di sinistra di promuovere politiche di coesione sociale tra i lavoratori dipendenti, massimi sconfitti della globalizzazione, ha lasciato largo margine d’azione alle destre nazionaliste, affermatesi con prepotenza nelle ultime elezioni americane ed europee.

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Anche l’Italia è stata travolta da quest’ondata di anti-globalismo, che ha rappresentato un cavallo di battaglia per i due partiti usciti vincitori dalle elezioni dello scorso marzo, Movimento 5 Stelle e Lega Nord. Sebbene le loro posizioni non siano perfettamente sovrapponibili, risultano comunque accomunate da un profondo scollamento tra propaganda e attività politica reale. Da un lato, la condotta dei primi è stata caratterizzata da un atteggiamento di sostanziale arrendevolezza, già dagli ultimi giorni di campagna elettorale, quando le velleità anti-sistemiche del loro leader sono state prontamente accantonate davanti alle esigenze degli investitori.

Poco sorprendente, in fondo, stando alle inversioni di rotta che hanno segnato la storia del Movimento nell’ultimo anno, da “mai con la Lega” al governo con la Lega, da “NO TAV” a “FORSE TAV”, passando per “fuori dall’euro” e “mai detto fuori dall’euro”.

Anche i leghisti hanno assunto storicamente posizioni diverse e talvolta contraddittorie in merito alla globalizzazione: basti ricordare i fatti tristemente noti di Genova 2001, quando l’allora Ministro della Giustizia, Roberto Castelli della Lega Nord, foraggiò i massacri a danno dei manifestanti no-global, anti-globalisti per antonomasia.

La genealogia dell’anti-globalismo leghista, tuttavia, è più complessa, e si inserisce nella scia dei discorsi sulla globalizzazione portati avanti dalla destra radicale europea dal finire degli anni Novanta, il cui tentativo principale è il superamento della dicotomia destra-sinistra in favore di due nuovi schieramenti, globalisti vs. identitari. Già nella sua premessa, più volte ribadita dai più eminenti ministri della Lega, questo anti-globalismo svela i tratti fondamentali della sua vera natura: la prevalenza del pericolo culturale della globalizzazione su quello economico; il ritorno a un assetto ideologico antico, proprio del nazionalismo novecentesco, in contrapposizione ad un fenomeno di nuova comparsa; l’ispirazione a valori di destra, e per nulla trasversali agli schieramenti tradizionali.

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I temi anti-globalisti della Lega, così come quelli dell’alt-right e delle nuove destre, sono prevalentemente politici e culturali, e riguardano solo marginalmente l’impoverimento subìto dalle classi medio-basse in seguito all’avanzata della globalizzazione economica.

La globalizzazione culturale, infatti, mina le basi della narrazione storica della destra, prima tra tutte il mito dell’identità nazionale, per effetto di una fantomatica sostituzione etnica – anch’essa, come altre sorosiane teorie cospirative, caratterizzante delle pratiche discorsive anti-globaliste a destra. In quest’ottica, si comprende la matrice tutta conservativa della risposta leghista alla globalizzazione, a dispetto di quanto millantato da una destra che si definisce alternativa: è così che la xenofobia, l’omofobia, l’intolleranza religiosa, il neonazionalismo formano un sistema di valori propagandati come progressisti, alternativi alla deriva globalista e scevri da logiche di parte, ma che sono – nei fatti – quelli noti della destra radicale.

La battaglia anti-globalista della Lega diventa economica soltanto in seconda istanza, cioè quando l’uso strumentale dell’economia può favorire e facilitare, in qualche modo, gli obiettivi culturali, o arricchire di populismo la propaganda elettorale perpetua. In mancanza di una linea politico-economica seria e coerente contro la globalizzazione, la Lega fa ricorso opportunisticamente ora alla Flat Tax, quintessenza del liberismo, ora alle nazionalizzazioni di memoria socialdemocratica. Ma, in questo calderone, gli unici a uscire illesi (o finanche rafforzati) dalle manovre economiche che si prospettano in seno all’esecutivo sono le care e vecchie élite che lo stesso si propone di combattere.

Il sovranismo euroscettico leghista, dunque, non equivale alla sovranità del popolo (per cui basterebbe realizzare, la concreta applicazione dell’art. 1 della Costituzione), quanto alla supremazia della borghesia nazionale su quella internazionale, da un lato, e dall’altro alla presunta superiorità dei nostri valori su tutti gli altri. L’anti-globalismo in salsa gialloverde è desiderio di autarchia e non già di sovranità popolare, e utilizza tutti gli strumenti che ha a disposizione per ingannare l’elettorato, nascondendo dietro il fantomatico superamento di destra e sinistra, al grido unanime di “cambiamento”, il riflusso reazionario della destra peggiore.