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Ieri nell’aula del processo contro il clan di Ostia non c’era nessuno tra le vittime, è vero: però c’era la loro paura.

Sono nata e cresciuta in un piccolo paese calabrese in provincia di Catanzaro. Il comune del mio paese è stato sciolto per mafia più volte. Ho vissuto lì per 18 anni, e la mafia non ho mai saputo cosa fosse, nonostante l’avessi vista tantissime volte. Ricordo che in un’occasione stavo tornando dalla pizzeria con alcuni miei amici, e davanti uno dei bar principali del corso del centro storico un uomo ha sparato tranquillamente a un altro uomo alle spalle, e poi è andato via.

Proprio così come ve l’ho raccontato: non si è né coperto il volto, né si è affrettato a correre via dopo lo sparo. E nessuno dei presenti — che pure erano tanti, visto che erano le dieci di sera d’estate davanti al bar più frequentato del paese — si è sconvolto più di tanto.

Poi l’ho vista nelle macchine bruciate sotto le case senza che nessuno chiamasse i pompieri. L’ho vista i sabati mattina, durante il mercato settimanale, quando passavano certe persone e tutti si affrettavano ad offrire loro qualcosa: il formaggio fresco, il pane caldo, il latte di mandorla fatto in casa e così via.

Eppure io per 18 anni non ho mai saputo cosa fosse la mafia. Come è possibile?

Il fatto è che finché non vedi la differenza, alcune cose non le riconosci: per te sono normali, non ti fai nemmeno tante domande perchè non hai proprio i punti interrogativi adatti. Quando sono andata a studiare lontano dal mio paese, dove tutte le cose per me normali non lo erano affatto, lì ho capito cosa fosse la mafia.

Nel mio paese la mafia era lo Stato, o meglio era quello che avrebbe dovuto essere lo Stato. Amministrava il territorio, chiedeva le tasse, faceva giustizia, offriva servizi e lavoro.

In un articolo uscito oggi sulla Stampa, ho letto una recriminazione che mi ha colpito molto:

“Dentro quell’aula di tribunale non c’era niente altro che lo Stato, i magistrati e i politici, la polizia e i carabinieri. La prossima volta che sentite qualcuno dire lo-Stato-ci-ha-abbandonato, menate duro. Non è lo Stato che ci ha abbandonato, siamo noi che abbiamo abbandonato lo Stato (altro che lo Stato siamo noi), con l’alibi meschino di qualche inchiesta trattativa. Ma che trattativa? Non c’è nessuna trattativa: c’è proprio un accordo, e funziona benissimo, fra la mafia e chi se la tiene, e preferisce stare alla larga dallo Stato perché lo Stato non fa paura, la mafia sì. Intendiamoci: nessuno è tenuto a fare l’eroe, ma almeno poi non rompa i cosiddetti.”

L’articolo si riferisce al processo, iniziato ieri, contro il clan Spada di Ostia. Gli imputati sono ben 27, tra cui il boss Carmine (il “Romoletto”) e il fratello Roberto, diventato noto in tutta Italia per la testata al giornalista Daniele Piervincenzi di Rai2. L’accusa rivolta dalla Procura di Roma è di associazione a delinquere di stampo mafioso, e si sono costituite come parti civili sia il Comune di Roma che la Regione Lazio. Eppure in aula non si è presentata nessuna delle vittime. Nessuno si è riconosciuto come parte offesa, nessuno.

A questo punto devo raccontarvi un’altra storia. Qualche anno fa è morto mio nonno. Mio nonno ha lavorato per settant’anni nel tabacchino, di sua proprietà, nel centro storico del mio piccolo paese. Mio nonno purtroppo era una persona onesta. Purtroppo perchè non è facile esserlo e avere una famiglia e un’impresa commerciale, quando in tanti non lo sono.

Ho saputo della morte di mio nonno per telefono: mi ha chiamata mia mamma che si era precipitata all’ospedale dove era ricoverato, per darmi la notizia. Tra le lacrime, mia mamma era stupita perchè ancora prima che arrivasse lei — l’ospedale è a Catanzaro, a mezz’ora di macchina dal mio paese — nell’obitorio c’era un esponente di una delle agenzie di pompe funebri del mio paese. Questa persona disse a mia mamma che doveva sapere a chi rivolgersi per il funerale.

Mio nonno non era morto nemmeno da un’ora e c’era già chi voleva darti ordini. Mia mamma l’ordine non l’ha rispettato, e per il funerale si è rivolta ad un’altra impresa funebre.

Quella scelta però, mamma l’ha pagata cara: una volta riaperto il tabacchino, da allora gestito da lei, per mesi nessuno veniva a comprarsi le sigarette.

Nonostante fosse il tabacchino principale da sempre, nonostante mio nonno fosse conosciuto e rispettato da tutti. Nessuno osava entrare, neanche a dire buongiorno. Nessuno, proprio come in quell’aula di Ostia.

In un altro articolo uscito oggi, sul Corriere, sempre in merito al processo di Ostia, vengono raccontate le storie di alcune delle vittime. Queste storie parlano di estorsioni, usura e omicidi, tentati e non. Ad esempio parlano di Paul Dociu, che su ordine di Ottavio Spada alle sette di un mattino bruciò davanti gli uffici del Municipio di Ostia un’Alfa Romeo. Il proprietario della macchina non sporse neppure denuncia. Il giudice che ha firmato gli arresti, riguardo a questa vicenda ha affermato: “Il dato veramente caratterizzante è stato che il proprietario non ha sporto denuncia, ossia che tale è la sfiducia nella possibilità di intervento dello Stato che le forze di polizia, e in conseguenza la magistratura, non sono state neanche notiziate dalla persona offesa.”

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In un’intervista rilasciata nel 2013 alla rivista Limes, veniva chiesto a Pietro Grasso come potessero essere contrastate le mafie in Italia. Grasso, uno dei volti principali della lotta alla mafia negli scorsi decenni, era stato appena eletto Presidente del Senato. La risposta è molto semplice:

“Il passo più difficile è riconquistare allo Stato e alla legalità gli spazi che la mafia ha guadagnato profittando dell’assenza o della debolezza delle istituzioni. La mafia continua ad esistere perché fornisce dei servizi e in quanto tale non è solo tollerata, ma in alcuni casi si rende necessaria.

Ricordo un interrogatorio a un collaboratore di giustizia, in una pausa gli chiedo in modo provocatorio quando pensa che finirà la mafia. Lui mi risponde con un aneddoto. Mi dice che durante la sua latitanza viene da lui un giovane di ventotto anni, reduce da una fuga d’amore e con una bambina di otto mesi. Gli dice che la bambina piange perché non ha di che sfamarla e chiede aiuto. Il mafioso impone a un costruttore edile che lavora per lui di assumerlo. Dopo dieci giorni il ragazzo torna dal mafioso e gli dice: «La mia bambina finalmente mangia: cosa posso fare per lei?». Lui si fa consegnare dal giovane incensurato i suoi documenti, in modo da poter acquistare automobili e affittare un nascondiglio usando un’identità pulita. Insomma, gli fa fare da prestanome. In quel momento, il giovane si trasforma nel favoreggiatore di un pericoloso latitante. Morale: «Finché quel ragazzo verrà da me e non da voi», cioè dalle istituzioni, «la mafia non finirà».”

Ieri nell’aula del processo contro il clan di Ostia non c’era nessuno tra le vittime, è vero: però c’era la loro paura. La richiesta che delle persone come tante altre diventino improvvisamente degli eroi è forse un po’ egoistica da parte dell’opinione pubblica.

Forse prima di chiedere alle persone di mettere in gioco le loro vite, dovremmo dare loro un motivo valido per farlo, la forza per farlo, la voglia di farlo: e queste cose non si possono ottenere da soli. Forse più che parlare di chi fosse presente e assente in questo processo, bisognerebbe parlare di quello che manca, e manca da tanto, nel nostro paese, che è la fiducia verso quello che può fare lo Stato.

Uno Stato che non ha speso nemmeno una parola per la lotta alla mafia nei programmi politici delle campagne elettorali dello scorso marzo. Uno Stato che si lascia sostituire, nel silenzio quasi totale, da persone che usano la violenza, e la minaccia della violenza, come metro d’azione e praticano la loro di giustizia.

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In copertina: foto via Twitter.

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