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Troppo impegnati a parlare di immigrazione, quasi tutti i partiti dedicano al contrasto alla criminalità organizzata frasi generiche e promesse vaghe — quando va bene.

C’è un’azienda in Italia, con “succursali” in tutto il mondo, che non compare in nessuna classifica o analisi economica: la ‘ndrangheta. Con un fatturato annuo di 53 miliardi di euro, senza contare i proventi legati a giri d’affari difficili da tracciare, la ‘ndrangheta spa copre ben il 3,5% del PIL nazionale. Per dirla senza numeri: il suo fatturato è pari a quello di Deutsche Bank e McDonald’s messi insieme.

“La ‘ndrangheta è l’azienda più ricca, più aggressiva, più invasiva, quella che meglio è riuscita a infiltrarsi nell’economia e nelle istituzioni, ma anche l’unica veramente globalizzata, con filiali in quasi tutte le regioni d’Italia e ramificazioni in Europa, Africa, Asia, America e Oceania” (Nicola Gratteri, Antonio Nicaso, Fratelli di sangue, Mondadori, 2010.)

In un mondo dove 243 milioni di persone tra i 15 e i 64 anni hanno assunto almeno una volta sostanze illecite, circa il 5% della popolazione globale adulta, la ’ndrangheta ha acquisito il semi-monopolio del traffico europeo di cocaina, accrescendo enormemente il proprio potere economico internazionale.

Nonostante questo, la ‘ndrangheta non esiste: nemmeno una parola è stata spesa a riguardo in uno dei tanti comizi elettorali in vista delle elezioni o nei programmi politici dei vari partiti, più preoccupati a parlare di fenomeni inesistenti, come la presunta emergenza immigrazione.

La ‘ndrangheta rimane nell’ombra, dove probabilmente fa anche comodo, e intanto arriva in quasi tutto il mondo, vende cocaina e compra palazzi nell’indifferenza totale, che si risveglia solo quando si sentono i colpi di pistola. Come a Duisburg, in Germania, nella strage del 15 agosto del 2007. Come in Slovacchia con l’uccisione del giornalista Jan Kuciak e della sua compagna Martina Kusnirova, per cui ieri sono stati arrestati a Michalovce e a Trebisov sette cittadini italiani, tra cui l’imprenditore Antonino Vadalà, il fratello Bruno e il cugino Pietro Catroppa. La famiglia Vadalà era al centro dell’inchiesta a cui stava lavorando Kuciak, pubblicata dal giornale Aktuality.sk (su Repubblica trovate la traduzione in italiano.)

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Eventi come questo ricordano prepotentemente che la ‘ndrangheta non è solo una multinazionale dai grossi guadagni, è un’organizzazione criminale, l’unica che oggi può essere definita “mondiale,” che tra i suoi modi operandi non si fa alcuno scrupolo ad usare l’omicidio.

Pietro Grasso, in un’intervista pubblicata nel 2013 da Limes, spiega: “Le mafie italiane, diversamente dalla maggior parte delle organizzazioni criminali di altri paesi, sono associazioni a delinquere che nascono da un peculiare intreccio fra crimine, società e territorio connotato da uno specifico rapporto con la politica e l’amministrazione pubblica. Riconoscerlo apertamente ha consentito il grande salto di qualità nella lotta alle mafie in Italia. Se non si tiene conto delle caratteristiche sociali e territoriali della mafia ci si preclude la possibilità di comprenderla e persino di ravvisarne la presenza, perché senza eclatanti manifestazioni violente è facile sostenere che «la mafia non esiste». Paradossalmente, stragi, omicidi e regolamenti di conti tendono a scemare quando gli affari delle mafie vanno bene. Dunque la violenza non è, in sé, un indicatore affidabile della forza e della pervasività delle organizzazioni di stampo mafioso.”

Se non è la violenza l’indicatore principale della forza di un’organizzazione criminale, per la ‘ndrangheta — che dell’uso strategico della violenza ci ha costruito le basi — possiamo usare altri indicatori:

droga-mafieCarta di Laura Canali via Limes.

Abbiamo visto che la maggior parte dei partiti dedica molta attenzione all’immigrazione nei propri programmi elettorali, perpetuando la narrazione, costruita ad hoc, dell’emergenza. Vale la pena allora dare un’occhiata a come affrontano la piaga sociale, made in Italy, della mafia, che a differenza dell’immigrazione è un problema vero, anche se non compare al primo posto tra le principali preoccupazioni degli italiani.

Movimento 5 Stelle

Nel programma ufficiale del MS5, il punto 14 si intitola “Lotta contro corruzione, mafie e conflitti di interesse” e si legge:

  • Modifica 416 ter sul voto di scambio politico mafioso
  • Riforma della prescrizione
  • Daspo per i corrotti
  • Agente sotto copertura
  • Intercettazioni informatiche ai reati di corruzione

L’impressione generale che si ricava leggendo questo punto è che il fenomeno della mafia venga visto esclusivamente in correlazione alla corruzione. Sappiamo però che la mafia è qualcosa in più. È un fenomeno sociale, culturale, economico, basato su riti di affiliazione e tradizioni. Per dirlo con le parole di Rosario Aitala: “Il mafioso concepisce la società come strumento di una parte: la propria. La mafia non è dunque anti-Stato, come si sente ripetere. Al contrario, ha bisogno che lo Stato esista (sebbene debole, condizionato) perché non vuole né può assumere responsabilità di carattere generale.” I punti “daspo per i corrotti” — ovvero l’allontanamento dalla cosa pubblica per le persone implicate in corruzione — e “agente sotto copertura,” dovrebbero essere il punto di partenza, non l’obiettivo da raggiungere.

Per quanto riguarda la modifica all’articolo 416 — l’articolo del codice penale che riconosce come reato lo scambio elettorale politico mafioso — specifichiamo che si tratta di una battaglia che il Movimento 5 stelle ha lanciato nel 2015. Ben tre anni fa.

Più significativa invece la candidatura di Piera Aiello, la candidata “senza volto”, che dopo aver assistito all’omicidio del marito, in Sicilia, per mano di due killer mafiosi, per ragioni di sicurezza evita di farsi fotografare durante la campagna elettorale. Come lei stessa ha dichiarato, il suo obiettivo è quello di proteggere le persone come lei, affinché “coloro che decidono di ribellarsi alla mafia non siano costretti a vivere come fantasmi.”

Centrodestra

Nei programmi unificati di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, evidentemente troppo impegnati a seminare odio e razzismo, il termine mafia non compare nemmeno per sbaglio.

D’altra parte stonerebbe parlare di mafia in una coalizione dove il leader principale, Silvio Berlusconi, è stato più volte al centro di scandali e processi per mafia, primo fra tutti la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa di Marcello Dell’Utri, suo storico braccio destro. Forse quindi il contrasto alle mafie nei programmi di questi partiti manca per una questione di decenza.

Centrosinistra

Il partito di Emma Bonino, +Europa, nel suo programma ufficiale parla di mafia soltanto di sfuggita.

Sono presenti alcuni riferimenti indiretti, da pescare per immaginazione e per logica più che altro, che parlano di una “riduzione e una progressiva eliminazione di tutti gli inquinanti immessi nell’ambiente, anche attraverso un contrasto sempre più forte nei confronti di tutti i fenomeni di illegalità connessi alla produzione ed allo smaltimento delle sostanze inquinanti.”

Neppure nella sezione sul Mezzogiorno, dove sono nati e governano i fenomeni mafiosi, si trova la parola mafia, ma solo: “Al tempo stesso vanno riconosciute e progressivamente rimosse le croniche inefficienze di sistema che impediscono lo sviluppo dell’area, dalla qualità della Pubblica Amministrazione all’efficienza della spesa pubblica, dal controllo del territorio al contrasto alla criminalità.” Una grave mancanza se consideriamo, ad esempio, che l’elemento peculiare della ‘ndrangheta è che quando “espatria” non si limita a fare affari ma “riproduce senso e identità, rigenera il modello di comunità e i (dis)valori che ha lasciato a migliaia di chilometri, insediando le proprie strutture criminali in un legame indissolubile con i vertici dell’organizzazione in Calabria,” come spiega Francesco Forgione in un saggio sulla presenza della ‘ndrangheta in Germania.

Nella parte finale del programma si trova finalmente la parola mafia, anzi mafie, ma anche in questo caso con un’accezione limitativa: “ Promuoviamo strategie di legalizzazione e regolamentazione dell’uso delle droghe in un’ottica di riduzione del danno sul consumo personale, nel nome della libertà individuale, della lotta alla criminalità e del contrasto ai profitti delle narco-mafie, della tutela della salute pubblica, della libertà di accesso alle cure e della libertà di ricerca sull’uso medico e scientifico di tali sostanze.”

Il PD, più sbrigativo, dice: “Ribadiamo il nostro impegno in patria contro tutte le forme di illegalità, a cominciare dalla criminalità organizzata di stampo mafioso.” Ah beh.

Liberi e Uguali

Abbiamo iniziato questo articolo con una citazione di Pietro Grasso, ex magistrato che ha dedicato gran parte della propria vita alla lotta contro la mafia. Nel programma ufficiale del suo partito, Liberi e Uguali, abbiamo forse l’unica vera menzione al contrasto del fenomeno, che comunque non soddisfa di sicuro le aspettative: “La lotta alle mafie deve essere una priorità e va continuamente alimentata, stante l’ampiezza delle infiltrazioni e la loro ramificazione non solo nazionale. Da questo punto di vista educare i giovani alla legalità rappresenta un impegno prioritario. Il regime del carcere duro per i mafiosi che mantengano un rapporto con i propri territori d’influenza non va mitigato e vanno tutelati i testimoni e i collaboratori di giustizia nei processi di mafia.”

Sicuramente più significativa è invece la scelta di candidare a capolista al Senato Federico Varese, professore universitario di Oxford ed esperto mondiale di mafie, che recentemente ha pubblicato il suo ultimo libro dal titolo “Vita di mafia”.

L’impegno alla lotta alla mafia, con una particolare attenzione alla ‘ndrangheta, non può essere un insieme di frasi generali, spesso indirette, di alcuni programmi politici.

Non può essere un elemento secondario nelle politiche rivolte al Mezzogiorno, ma in generale nelle politiche italiane che vivono e convivono con questo fenomeno da troppo tempo nel silenzio generale di un’opinione pubblica ormai drogata di slogan contro l’immigrazione. Proprio Pietro Grasso, nell’intervista menzionata prima, ricorda: “Falcone amava ripetere che la mafia è un fenomeno umano e come tutte le manifestazioni dell’uomo ha avuto un inizio e avrà una fine. Un mio collega magistrato chiosava, con scetticismo leopardiano, che proprio in quanto fenomeno umano la mafia durerà quanto l’umanità stessa. Io non sono d’accordo: credo che la mafia si possa battere, ma per farlo occorre un insieme di strumenti.”


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