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Dalla mostra dell’Hangar Bicocca dedicata a Lucio Fontana al collettivo MoMAR,  gli spazi museali stanno ripensando il proprio approccio social — e gli utenti con loro.

Le mostre rimangono una cosa bellissima. Ed è proprio per questo che facciamo così fatica a “limitarci” a visitarle. Ci portiamo infatti appresso tutte le persone con cui condividiamo le foto scattate, tutti i nostri followers. Spesso ci capita di rivestire entrambi i ruoli: sia quello di “snapper” (“Like it- Snap it- Share it”) sia quello di spettatore di “snap” altrui.

Nel secondo caso, quando per pigrizia o procrastinazione non riusciamo a visitare prima della sua chiusura quella mostra che tanto ci interessava, ecco che l’esercito degli “snappers” ci offre un biglietto virtuale. Un esempio fresco è quanto avvenuto per “Ambienti/Environments” conclusasi il 25 Febbraio all’Hangar Bicocca. L’esposizione – che ricostruiva per la prima volta dopo la morte di Lucio Fontana stanze e corridoi concepiti dall’artista alla fine degli anni 40 – è entrata per gli scorsi sei mesi se non nell’esperienza, sicuramente nel feed di tutti. Oltre che una mostra, gli ambienti di Fontana si sono rivelati un vero e proprio set fotografico, rendendo difficile individuare chi visitava la mostra per vivere il percorso o chi invece voleva solo lasciare una traccia tangibile del proprio passaggio.

Ma come l’ha presa l’ Hangar Bicocca? Possiamo ottenere una risposta leggendo il suo regolamento: via libero alle fotografie a patto che la risoluzione utilizzata sia bassa. E su Instagram infatti non troviamo fotografie che superino la qualità di quelle utilizzate dal sito ufficiale. Tutto ciò quindi non è stato altro che un’ottima, e ben accolta, pubblicità.  

Se però utilizziamo una lente più moraleggiante per analizzare questo fenomeno, decisamente non isolato, siamo ricondotti alla classica domanda: è giusto o non è giusto scattare fotografie nei musei?

Guardare ma non fotografare

I musei, uno dopo l’altro (la National Gallery di Londra come ultimo ed eclatante esempio), si stanno adattando alla volontà dei visitatori di tenere allenata l’abilità di reporter. Una notizia amara per tutti coloro che si schierano dalla parte del “guardare ma non fotografare”. L’arte intesa come modo efficace per fermarci a riflettere sui dettagli, scambiare impressioni, il desiderio di essere prima visitatori che fotografi, il vivere davvero un posto piuttosto che fare di tutto per provare agli altri di esserci: sono tutti gli argomenti sfoderati da chi sostiene a spada tratta questa posizione. Come dargli torto? Ma soprattutto, come non farlo?

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L’onnipresenza delle camere digitali insieme all’urgenza irrefrenabile di scattare foto, ha infatti portato molti musei a rivedere le politiche vigenti negli ultimi anni. Metropolitan Museum of Art, Art Institute of Chicago, The National Gallery of Art, The Indianapolis Museum of Art, The Getty Museum, sono solo alcuni dei nomi che hanno esteso la possibilità di fare foto anche alle loro collezioni permanenti. Una scelta obbligata tanto quanto necessaria: “Anche nei posti più bloccati e sicuri, le persone continueranno a scattare foto e di conseguenza si continueranno a trovare un milione di queste immagini on-line. Quindi perché non accettarlo con un atteggiamento aperto, che sia costruttivo e coinvolga il pubblico?” ha dichiarato Nina Simon, direttrice del Santa Cruz Museum of Arts & History e autrice di “The Participatory Museum”. L’uso dei social media da parte dei musei inoltre complica ancora di più la questione: molte realtà museali ormai gestiscono account  con lo scopo di promuovere il proprio lavoro verso un pubblico più ampio. Quindi è diventato sempre più difficile per i visitatori capire perché anche loro non possano prendere parte a questa avanzata verso la tecnologia e l’interattività.

Non bisogna andare troppo indietro con gli anni per capire come non ci sia nulla di nuovo in questa attitudine. Artisti come Andy Wharol e Sherrie Levine ( figura di spicco della “Appropriation Art”) appartengono a correnti artistiche che basano il proprio lavoro su opere pre esistenti. C’è infatti una costante trasformazione nel modo in cui si interagisce con ciò che si vede, ma sarebbe fuori luogo negare che questa evoluzione abbia portato per forza ad un esito negativo. La fotografia infatti non si distacca troppo dalla tradizione dello “Sketching.”

Non è un paese per instagrammers

Quando ci spostiamo su un piano legale però la questione diventa un pò più complicata. È infatti un dibattito che ha trovato spazio anche nel Parlamento Europeo, quando nel Giugno 2016 l’europarlamentare Tedesca Julia Reda ha proposto di estendere la riforma del Copyright a tutta Europa, che fino a quel momento variava da paese a paese. La riforma del Copyright avrebbe compreso la libertà di panorama, cioè il diritto a scattare foto di edifici ed opere d’arte che si trovano in luoghi pubblici senza infrangere il diritto d’autore (che ha una validità di 70 anni dopo la scomparsa dell’artista).

In Italia questa libertà di panorama si può dichiarare inesistente, come ha portato alla luce nella sua inchiesta il giornalista Luca Spinelli. Infatti legalmente si possono scattare foto soltanto se queste ultime vengono adibite ad uso privato e non riprodotte su Internet con fini commerciali. Ma purtroppo ci dobbiamo scontrare con la realtà dei social network: nel pubblicare una foto, accettiamo anche che quest’ultima possa essere sfruttata proprio a fini commerciali. L’utente dovrebbe quindi accertarsi personalmente che questo non avvenga, tutto ciò va ben oltre l’unica indecisione che si presenta solitamente prima di un post: la descrizione. L’Italia non è quindi un paese per Instagrammer.

Interagire non può essere solo sinonimo di fotografare

Dall’East Coast americana è il collettivo “MoMAR” e non un museo a dare una risposta concreta alla necessità di sfruttare la tecnologia, in modo costruttivo, per aumentare l’interattività con opere d’arte. Con il progetto “Hello we’re from the Internet”, 8 artisti hanno reso accessibili i propri lavori aventi come base i “masterpiece” di Jackson Pollock, esposti nella stanza tematica del MoMa. L’opera d’arte viene quindi rielaborata come quando si scatta una fotografia, ma con un principio più creativo ed utile per la collettività. Infatti una volta scaricata la MoMAR app, tutte le persone che quotidianamente entrano nella sala dedicata a Pollock possono assistere ad una duplice esibizione: quella sulla tela e quella sul piccolo schermo. Si tratta di un’app volontariamente “open source” come è stato dichiarato da uno degli artisti, Damjanski, cosicché qualsiasi visitatore possa, attraverso le istruzioni che trova in un apposito PDF, apportare modifiche in base alla loro visione personale.

E’ una vera e propria dichiarazione anti-elitaria del concetto di arte e perché non sostenerla? Adesso che le camere digitali non sono più viste come armi pericolose dai musei stessi, è il momento di sfruttarle per ampliare l’esperienza che possiamo fare dell’arte. Anche se purtroppo no, i selfie non sono inclusi.

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