La caccia all’uomo tra migranti e polizia nel porto di Patrasso

Ogni giorno, decine di profughi afghani cercano di imbarcarsi abusivamente sulle navi dirette in Italia, rischiando la vita.

La caccia all’uomo tra migranti e polizia nel porto di Patrasso

Video: Gabriele Gatti
Foto: Nicola Fornaciari

Ogni giorno, decine di profughi afghani cercano di imbarcarsi abusivamente sulle navi dirette in Italia, rischiando la vita. Quasi sempre, vengono respinti dalla polizia.

Per via della sua vicinanza geografica alla Turchia — che, con quasi 3 milioni e mezzo di profughi siriani registrati, è il primo paese per latenza di rifugiati sul territorio — la Grecia è diventata dal 2015 il fulcro dell’accoglienza europea. Le isole greche, per i migranti, sono oggi luoghi di permanenza forzata che giorno dopo giorno li allontanano dal termine del loro viaggio, anche quando “l’emergenza” non è sotto i riflettori dei media.

A fine giugno 2017 nell’isola di Lesbo, diventata tristemente luogo-simbolo dell’accoglienza europea, erano 4521 i profughi ospitati negli hotspot, di cui 45 minori non accompagnati (dati IOM). Per afgani, pakistani e algerini è infatti quasi impossibile ottenere l’approvazione della domanda di asilo a causa delle leggi vigenti sull’accoglienza. Questa situazione costringe molti ad imbarcarsi abusivamente sui traghetti diretti verso Atene e, successivamente, tentare di arrivare in Italia.

Così per esempio nella città di Patrasso, uno dei più importanti porti commerciali della Grecia, si svolge quotidianamente una caccia all’uomo tra la polizia portuale e i profughi che provano a imbarcarsi abusivamente sulle navi dirette verso l’Italia.

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Il lavoro sul campo ci è costato un interrogatorio in caserma da parte delle autorità e il sequestro di gran parte del materiale video. Ciò che rimane è stato registrato dalle telecamere nascoste e non è di qualità ottima. Quello proposto è un format video senza audio e in B/N per le riprese molto rovinate.

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L’area portuale è un recinto delimitato da un’alta cancellata che guarda verso la città e, dalla parte opposta, da una barriera di cemento, acciaio e filo spinato che divide la zona di transito da quella d’imbarco. Esistono due modi per attraversare la barriera: il primo consiste nell’intrufolarsi dentro ai rimorchi dei camion che attendono i controlli doganali. In questo modo, nascosti tra la merce, i profughi possono sperare di passare inosservati agli occhi degli agenti doganali.

Un’alternativa molto pericolosa per la loro incolumità è quella di aggrapparsi ai semiassi dei veicoli fino alla stiva della nave. Un camionista denuncia la condizione nella quale lui e i suoi colleghi si trovano. Infatti, essere sorpresi a trasportare uno o più profughi, anche inconsapevolmente, può costare al conducente un’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fino a sei mesi di reclusione.

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Il secondo metodo, ancora più disperato, consiste nel correre contro la barriera di filo spinato, scalarla, gettarsi nella zona d’imbarco, provare a evitare le auto della polizia portuale, arrampicarsi sulle cime di ormeggio e salpare nascosti nella stiva di una nave.

Ogni giorno, ondate di afghani attendono che i poliziotti siano distratti per lanciarsi in una disperata corsa verso il muro di metallo e provare a superarlo. Il primo segno che li avverte di essere stati scoperti viene dai segnali sonori dei veicoli della polizia che provano a spingerli verso la città. Oppure, hanno già oltrepassato il limite e si trovano nella zona d’imbarco, i poliziotti li costringono a scavalcare di nuovo la barriera e a fuggire il piú lontano possibile.

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La polizia usa ogni mezzo a disposizione per inseguire e intimidire i profughi: jeep, auto d’ordinanza, vecchi motorini. Lo scopo delle autorità è unicamente quello di arginare per più tempo possibile le ondate, che si ripetono ciclicamente. Chi riesce a scappare dagli accerchiamenti si nasconde o attende in disparte per poi tentare l’impresa più e più volte.

In un certo senso, la disperazione accomuna i profughi ai poliziotti. Un agente, dopo aver respinto l’ennesima ondata, si sfoga: “L’Europa deve sapere ciò che accade qui. Siamo troppo pochi per controllare i migranti e svolgere i servizi doganali.” Spinti dalla frustrazione, gli agenti non risparmiano l’uso dei manganelli per scacciare le decine di profughi che senza tregua prendono d’assedio la zona d’imbarco.

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Emil viene dall’Afghanistan. Ci racconta che per lui è la seconda volta che prova a scappare dalla Grecia via mare; il primo tentativo gli è costato l’arresto in Italia, un pestaggio e il rientro in Grecia. Ha vent’anni e vive in un palazzo abbandonato appena fuori dalla zona portuale con decine di suoi compagni afghani che, come lui, non trovano collocazione all’interno della rete di accoglienza greca. Vorrebbe raggiungere la madre a Venezia.

Ci mostra il suo equipaggiamento: una bottiglia d’acqua da due litri, che gli dovrà bastare per tutta la durata del viaggio via mare, e un giubbotto ormai inservibile a causa degli strappi che gli aculei del filo spinato gli hanno procurato. Le sue mani, fasciate da pezze sporche di sangue e terra, sono ferite dalle numerose scalate per la libertà.

Davanti alla caserma della Guardia Costiera un gruppo di profughi fradici e ammanettati attende di entrare per il riconoscimento. Nel tentativo di raggiungere un traghetto in procinto di salpare si sono gettati in mare, ma sono stati ripescati dai militari.

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Afeef è l’unico di decine di ragazzi che ce l’ha fatta: si è imbarcato abusivamente sul traghetto delle 18 diretto ad Ancona. Lo attendono 22 ore di viaggio senza mangiare e avendo a disposizione solo una bottiglia d’acqua da due litri per dissetarsi. Dormirà e passerà il viaggio nella zona dedicata agli animali sulla poppa del traghetto. Anche per Afeef, poco più che ventenne, la meta è Venezia, dove vuole raggiungere alcuni familiari. Ci confida di aver intrapreso il viaggio spinto da un amico che ora si trova sull’isola di Cres, in Croazia.

Con l’appoggio del Parlamento Europeo alla riforma del trattato di Dublino data lo scorso 16 novembre si aprono nuovi orizzonti sul perfezionamento delle politiche di accoglienza. Il testo vigente implica che la responsabilità di riconoscimento e di domanda di asilo siano del primo paese d’ingresso. Questo meccanismo verrebbe sostituito da un sistema di quote regolate da un principio di solidarietà, in conformità con l’articolo 80 del trattato dell’Unione Europea.

Il rischio di affossamento in vista delle prossime elezioni però è alto, soprattutto a causa delle campagne mediatiche costruite dal gruppo Višegràd basate sulla costruzione di barriere, sulla difesa contro l’immigrazione e sulla xenofobia. Nei prossimi mesi le battaglie per l’accoglienza dovranno essere combattute nelle commissioni e sui banchi del consiglio Europeo affrontandole nelle vesti di una sfida politica che condizionerà l’equilibrio non solo degli stati di frontiera, ma dell’Europa intera.