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Si tratta di 23 oggetti d’oro ritrovati in Romania nel 1799 in una cittadina dal nome ungherese ma in un’area che al tempo era territorio asburgico. Oggi il tesoro è conservato a Vienna ma la sua proprietà è contesa tra Bulgaria, Ungheria e Romania.

Dal 6 aprile al 9 luglio 2017 il Museo Archeologico di Sofia esibirà una collezione d’eccezione: il Tesoro di Nagyszentmiklós, una serie di 23 oggetti d’oro dal peso totale di 9,95 kg scoperti il 3 luglio 1799 da Neru Vuin, un contadino serbo, nei pressi della città romena di Sânnicolau Mare (Grande San Nicola), allora chiamata col nome ungherese di Nagyszentmiklós, appartenente all’impero asburgico. Il tesoro venne quindi portato e conservato nel Kunsthistorisches Museum di Vienna, dove ancora oggi si trova.
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Nonostante i numerosi e accurati studi effettuati sui reperti del tesoro, non si è ancora giunti ad una sua precisa datazione, anche se la maggioranza degli studiosi concorda nel collocare i manufatti nel periodo tardosasanide e protoislamico (VII-IX secolo d.C.).

Il temporaneo trasferimento del tesoro di Nagyszentmiklós in Bulgaria è importante non solo per la sua altissima qualità artistica, ma anche per una questione nazionalista — per lo stesso motivo l’esposizione a Budapest del tesoro era stata salutata con grande acclamazione da parte dei partiti della destra nazionalista. Una delle ipotesi più accreditate, infatti, rimanda la realizzazione dei manufatti alla cultura avara (VII-VIII secolo), primo nucleo della nazione ungherese, o, in seconda ipotesi, in Bulgaria, nel IX secolo, nella fase di sviluppo del Primo Impero Bulgaro. Ci sono, infatti, recondite (anche se ardite) somiglianze tra il tesoro di Nagyszentmiklós e i ritrovamenti di Novi Pazar (Bulgaria). Inoltre, in modo alquanto arbitrario, alcuni studiosi bulgari associano una delle iscrizioni che appare su un recipiente alla traslitterazione della lingua bulgara in caratteri greci della frase “Boyla Zoapan ha fatto questo recipiente. Butaul Zoapan lo ha usato per berci.”

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Altre quattordici iscrizioni in caratteri runiformi presenti su altri oggetti del tesoro rimanderebbero a una lingua di ceppo turco, così come i nomi di “bouēla” e “boutaoul” e il titolo di zōapan, deriverebbero a una cultura turcofona. Ma in nessun caso vi è accordo sul significato dei testi.

La teoria avara, che sarebbe quella più attendibile, è comunque funzionale alla Bulgaria in quanto gli avari avrebbero parentele con i protobulgari. Questo permetterebbe ai nazionalisti di avvalorare il primato culturale su tutti gli altri popoli slavi — compreso quello russo. La Grande Bulgaria e i due imperi che seguirono (Primo e Secondo Impero Bulgaro) sono stati per secoli i più grandi baluardi dell’Europa, contrastando l’avanzata dei bizantini, prima, e dei turchi, poi. Lo stesso alfabeto cirillico nacque nella scuola di Preslav dai discepoli di Metodio, fratello di Cirillo, per poi affermarsi come alfabeto slavo, mentre dal punto di vista religioso la Chiesa ortodossa bulgara è stata la prima chiesa autocefala all’interno della comunità cristiana ortodossa.

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La datazione del tesoro di Nagyszentmiklós al IX secolo d. C. ha poi permesso ai bulgari di compiere il collegamento con Simeone il Grande, il cui regno è considerato essere il pilastro della storia bulgara. Sotto il regno di Simeone, la Bulgaria estese il suo territorio al massimo della sua espansione, raggiungendo anche le aree di Sânnicolau Mare, dove è stato ritrovato il tesoro.

Un grande ritorno, dunque, quello degli oggetti di Nagyszentmiklós, specialmente in un periodo, come quello attuale, in cui la Bulgaria vive una fase di declino economico e politico, con un futuro non ancora delineato ed in biblico tra Russia ed Europa (con una grande presenza turca tra la sua popolazione).

La volontà dei nazionalisti bulgari di affermare la loro superiorità e di ritornare ai fasti di Simeone ha risvolti anche tragicomici: nel 2014 il giornale Europost arrivava a reinventare la storia del ritrovamento del tesoro di Nagyszentmiklós attribuendola a due fratelli bulgari: Hristo e Kiril Nakoki, i quali lo avrebbero spontaneamente donato all’imperatore Giuseppe II. L’articolista, però, non aveva fatto i conti con la cronologia storica: nel 1799, anno della scoperta dei manufatti, l’imperatore era già morto da nove anni.

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Ma, oltre alla Bulgaria, anche la Romania recrimina la sua parte di bottino. Anzi, per la verità lo rivuole tutto, visto che è stato ritrovato su quello che oggi è suo territorio. Le pretese del governo di Bucarest sono anch’esse dovute a delicati rapporti politici. Dopo il crollo del regime di Ceausescu i governi a lui succeduti sono sempre stati instabili e fortemente contestati dalla popolazione. Riavere tra i suoi musei i 23 oggetti ritrovati a Sânnicolau Mare garantirebbe al gabinetto romeno una importante boccata di ossigeno per la sua sopravvivenza.

Dal punto di vista artistico i reperti sono riconducibili a diverse epoche storiche: le scene di caccia e del rapimento in cielo del sovrano da parte di un’aquila (Garuda) sono chiaramente motivi sasanidi e protoislamici; alle steppe (da cui derivano i proto-bulgari e la Grande Bulgaria) si ricollegano le scene del re vittorioso; all’arte bizantina, infine, il combattimento degli animali. L’arte metallifera protobulgara, però, più che a quella delle steppe, andrebbe collegata a quella bizantina.

A ingarbugliare ancora di più il rebus del tesoro di Nagyszentmiklós è la destinazione d’uso dei singoli oggetti. Parte di questi, infatti, sembra essere stata destinata a pranzi importanti, mentre la presenza di simboli religiosi quali le croci o l’unica iscrizione chiaramente decifrata, in greco, che ricorda un battesimo, rimandano a un utilizzo prettamente sacro. Proprio l’iscrizione greca esclude che queste opere siano state forgiate da una mano bizantina, riconducendo di nuovo gli studiosi all’ipotesi avara dell’VIII secolo.

Foto originali di Piergiorgio Pescali.