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Una settimana nei centri d’accoglienza profughi ad Atene e Salonicco: la quotidianità dei volontari, le vite dei migranti, le politiche della poca accoglienza — sono storie di porte chiuse.

intervista di Carlotta Passerini
foto di Hans Leopold Helm

Per garantire la sicurezza e l’anonimato degli intervistati, tutti i nomi sono stati cambiati.

quinto giorno


Il governo greco insieme a UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ospita famiglie vulnerabili di profughi in appartamenti liberi sparsi sul territorio.

A Moschato, comune nell’area di Atene, abbiamo incontrato la famiglia di Mohammed nella loro nuova casa.

Mohammed vive insieme alla moglie Maysam e a due dei suoi tre figli, Ahmed e Rima. L’altra figlia, invece, vive in un campo profughi insieme al marito e ai suoi due figli.

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Ahmed ha una disabilità fisica da quando è nato e ha bisogno della sedia a rotelle per muoversi. Rima è in ospedale perché ha partorito da sette giorni, ma la figlia appena nata, Malak, è malata. L’ospedale dove è ricoverata si trova a un’ora di distanza dall’appartamento e per questo i nonni della piccola Malak non riescono ad andare a trovarla. Ci mostrano orgogliosi una fotografia della neonata, commossi.

Mohammed ha 58 anni, mentre la moglie è di tre anni più giovane. Vengono da Afrin, una cittadina curda nella zona di Aleppo. “Afrin è distrutta, rasa al suolo.” ricorda Maysam, “Era bellissima.”

Lui era muratore e imbianchino, lei insegnava a scuola.
Entrambi soffrono di patologie cardiache. Lei è tachicardica e anemica, mentre lui ha avuto un infarto nel 2005 ed è diabetico. Sono stati visitati dalla Croce Rossa appena arrivati ed entrambi seguono terapia, scritta sul loro Passaporto Medico.

Mohammed parla cinque lingue: curdo, arabo, turco, francese e russo. Maysam parla curdo e arabo, come il figlio Ahmed.

Ahmed ha ventidue anni. Ha frequentato la scuola fino alla fine del liceo, poi a causa della guerra ha dovuto smettere. Spera di poter studiare una volta stabilitosi in Europa.

Sono arrivati in Grecia nel marzo 2016. Dopo aver lasciato Afrin si sono recati in Turchia e hanno vissuto un periodo a Istanbul. Poi, affidatisi a un trafficante, si sono imbarcati alla volta della Grecia.

Erano su un gommone con altre trenta persone. Un ragazzo siriano che non poteva permettersi di pagare il viaggio ha guidato il natante. Era l’unico senza salvagente, perché, senza soldi, non aveva diritto neanche a quello.

Foto di Carlotta Passerini
Foto di Carlotta Passerini

Mohammed ci mostra un video girato con il suo telefonino sul gommone appena prima dello sbarco a Mitilene, sull’isola di Lesbo. I profughi nel video sono disidratati e spaventati. I bambini piangono. Una donna prega ringraziando per vedere la costa, “Ce l’abbiamo fatta.”

Dopo aver vissuto qualche giorno al campo di Moria, sull’isola, la famiglia di Mohammed ha preso un traghetto per Atene e ha raggiunto il porto del Pireo. Da lì è stata trasferita al campo di Ritsona, a Nord Est della capitale.

“Non c’è niente vicino al campo,” racconta Maysam “abbiamo vissuto cinque mesi nelle tende, faceva molto freddo e c’erano tanti serpenti.”

Mohammed ci mostra un altro video, girato a Ritsona. Nel filmato balla la Dabkah, tipica danza siriana, insieme ad altri profughi e alle operatrici della Croce Rossa. “Ha insegnato lui a ballare a tutti” spiega orgogliosa la moglie.

Poi Maysam ci mostra alcune fotografie dei nipoti che vivono nel campo. Prima di metterle via dà un bacio a ciascuna di queste, commossa.

Le domandiamo se i nipoti vadano a scuola: “Sì, al campo c’è una scuola dove fanno lezioni anche di inglese e tedesco, per abituare i bambini alla lingua.”

Parlando di scuola Maysam spiega che una volta a destinazione le piacerebbe tornare a insegnare.

La casa dove vive Mohammed con la sua famiglia è poco lontana dalla strada principale di Moschato. L’ingresso principale si affaccia su un patio. Appena si entra c’è la sala, collegata alla camera da letto dove dormono i genitori e Ahmed. Un corridoio, poi, separa la stanza di Rima e del marito dalla sala e dalla cucina. Sul retro c’è un cortiletto.

L’appartamento è molto spoglio, anche perché la famiglia di Mohammed è in attesa di essere ricollocata in Europa. Non sanno dove andranno, ma fra tre mesi avranno l’intervista finale e verrà comunicata loro la destinazione.

La famiglia si è trasferita nell’appartamento da tre mesi. Vivono meglio rispetto alle tende, ma nella casa non c’è riscaldamento.

Il programma del governo insieme alle Nazioni Unite prevede che a ogni famiglia venga assegnata una carta prepagata utilizzabile esclusivamente nei supermercati. “Noi siamo tanti e i soldi non bastano” ci racconta la coppia.

“Non abbiamo neanche vestiti invernali” prosegue Maysam “nel campo c’erano tanti volontari che li distribuivano, qui no.”

Ci spiegano di aver conosciuto tanti volontari da tutto il mondo e ogni tanto qualcuno di loro passa a salutarli all’appartamento, portando qualcosa in dono.

Maysam fuma una sigaretta nel patio di fronte all’appartamento. Parlare di Siria e del suo viaggio è sempre difficile. “A volte penso che vorrei tornare in Siria, non è possibile vivere così.” ci dice.

“Siamo tutti uguali, musulmani, cristiani, ebrei, curdi, arabi, siamo tutti uguali.” prosegue Mohammed “Perché noi ci meritiamo questo?”