Una settimana tra i profughi di Nea Kavala
La mia destinazione erano i campi di Nea Kavala e Cherso, a Nord di Salonicco. Con così tante persone in bisogno, pensavo che il mio aiuto avrebbe avuto lo stesso significato di una goccia nell’oceano.
A fine maggio la situazione dei circa 60mila rifugiati bloccati in Grecia diventa insostenibile, dopo lo sgombero del campo informale di Idomeni, la chiusura del confine a Nord con la Macedonia e la conseguente redistribuzione dei rifugiati nel Paese.
La Grecia appare sempre più isolata dall’Unione Europea e i richiedenti asilo rimasti sul territorio restano in attesa del proprio destino, impotenti, aspettando che la burocrazia europea faccia il suo effetto con l’attuazione del piano di ricollocamento.
Dopo più di un mese di confronto con amici e parenti, di ricerca di informazioni tramite il portale Greece Vol – che raccoglie in tempo reale le principali richiesti di aiuto e notizie per i volontari – decido di partire.
La mia destinazione sono i campi di Nea Kavala e Cherso, a una quarantina di chilometri a Nord da Salonicco, nella regione della Macedonia Centrale. Una volta giunto all’aeroporto, mentre cerco di capire che autobus prendere, incontro una ragazza italiana,anche lei volontaria,come ostetrica. Il viaggio scorre veloce e le prime impressioni offrono di Salonicco l’immagine di una città vittima della crisi economica, ma comunque vivace.
Un pullman extraurbano mi porta fino a Polykastro, 20mila abitanti, a quattro chilometri dal campo più vicino a casa di Nea Kavala. Vengo accolto da George, coordinatore dell’associazione per cui lavoro originario dello Sri Lanka, che mi spiega qual è la situazione attuale: in molti hanno iniziato a lasciare i campi e dirigersi verso la città di Salonicco, mentre altri, con più disponibilità economica, riescono a falsificare i passaporti o a passare illegalmente il confine con la Macedonia.
Nell’abitazione ci accoglie Kayra, che da mesi lavora come volontaria indipendente per diverse associazioni tra i vari hotspot della rotta balcanica. Per lei essere volontari indipendenti vuol dire “poter realizzare i miei progetti per rendere più felici i bambini. Nessuno sa veramente che cosa hanno passato finché non ti siedi ad ascoltarli”.
Una goccia nell’oceano
L’associazione per cui lavoro – A Drop in The Ocean – è un una NGO norvegese che opera in Grecia. La sua fondatrice, Trude Jacobsen, è partita da sola nell’agosto 2015 per l’isola di Lesbo, una delle più vicine alla Turchia e per questo motivo particolarmente esposta agli sbarchi.
Il nome dell’associazione lo ha scelto perché “pensavo che ci fossero tante persone ad aver bisogno d’aiuto e il mio aiuto avrebbe avuto lo stesso significato di una goccia nell’oceano”. Il suo primo viaggio aveva l’obiettivo di “vedere realmente chi sono le persone, al di là dei numeri in continuo aggiornamento che riempiono le pagine dei giornali”.
Da allora il passaparola e le continue donazioni private hanno permesso all’associazione di diffondersi anche sulla terraferma, nelle aree di Atene e Salonicco. La principale attività è quella della distribuzione: dai vestiti alle calzature, dagli spazzolini allo shampoo.
Le attività nei campi
Il primo giorno di volontariato inizia con una piacevole sorpresa. Dimitra, ragazza greca di Polykastro non ancora diciottenne, decide di unirsi ai volontari nella distribuzione di ciabatte presso il campo di Cherso: “Non posso continuamente stare ferma a vedere le condizioni in cui versano i rifugiati vicino al mio Paese, per questo ho deciso di aiutarli prima dell’inizio del mio ultimo anno di scuola”.
Il campo di Cherso dista circa 25 minuti di macchina dalla casa che accoglie i volontari ed è stato aperto nel mese di febbraio: gli accessi sono gestiti direttamente dall’esercito greco e ospita circa mille persone di cui la metà sono minori di 18 anni.
L’intera mattinata è dedicata alla distribuzione di ciabatte Crocs: un ragazzo e una ragazza attorno ai quindici anni ci aiutano nella ricerca e consegna delle ciabatte e nella traduzione dall’arabo all’inglese per facilitare la scelta dei numeri e dei colori. Sono felici di dare una mano: dare aiuto diventa contagioso anche per chi lo riceve.
Ci spostiamo nel campo più a Sud di Nea Kavala per distribuire cioccolato ai bambini. Ad un primo impatto è un campo poco organizzato:aperto anch’esso a febbraio ha una forma a L, stretta e lunga, e sorge su quella che era una pista per aerei militari. Molti, soprattutto uomini, si precipitano sui volontari con in braccio i più piccoli. Non tutti parlano inglese, ma alla domanda “what is your final destination?” spesso capita di sentirsi rispondere “everywhere”. Molti di loro sono in Europa ormai da mesi, ma la situazione in Grecia è critica per via della chiusura del confine con la Macedonia e degli altri Paesi balcanici. Il ricollocamento interno dopo la chiusura del campo Idomeni – che aveva ospitato fino a 15mila persone – ha distribuito i migranti in nuovi campi, ricavati da aree dove sorgevano vecchi magazzini.
A Nea Kavala c’è una piccola scuola gestita dall’associazione We Are Here, dove ogni giorno tranne il sabato si tengono lezioni di inglese in classi divise a seconda della conoscenza pregressa della lingua, e tenute da insegnanti volontari che purtroppo non possono garantire un contributo a lungo termine.
Oltre all’inglese, si spiega l’importanza dell’igiene, soprattutto ai più piccoli, è così, insieme agli altri volontari, insegno ai bambini come ci si lava le mani. A fine mattinata capisco che le due parole in inglese ,“my friend”, con cui tutti i bambini del campo mi chiamano mi accompagneranno per tutti i giorni in Grecia.
Le partite a calcio pomeridiane
Organizzare una partita di calcio con bambini e ragazzi senza parlare una parola d’arabo non è facile. Il momento del gioco arriva sempre a fine giornata e mi stupisco sempre di riuscire a trovare le forze per farcela. Divido questa responsabilità con Felicia, volontaria svedese di 21 anni, e insieme decidiamo di comprare dei palloni nuovi in un piccolo negozio di Polykastro per sostenere l’economia locale.
Il nostro primo arrivo al campo è accolto solamente da qualche curioso. Con Felicia decidiamo di fare un giro fra le tende e la nostra proposta inizia a diffondersi.
Cerchiamo di dividere i ragazzini per squadre apparentemente omogenee, ma senza successo, e col passare dei giorni mi limito a scegliere i due capitani.La scelta delle squadre avviene con il “bim bum bam” locale, un gioco di piedi: vince chi calpesta per primo il piede dell’altro.
A partita iniziata la mia memoria torna a quando ero piccolo e giocavo a calcio con i miei coetanei, il gioco di squadra era quasi del tutto assente: l’obiettivo era la palla, entrare in possesso della palla e fare gol. I più scarsi o i più piccoli erano di solito i portieri, pochi quelli che volevano veramente stare fra i pali. E qui è la stessa identica cosa. Passa un elicottero e la partita quasi si interrompe: qualcuno grida “Alemania” qualcun altro gesticola mimando il lancio di bombe. Il timore e il ricordo della guerra è ancora molto presente. Ma poi si ricomincia a giocare, come se nulla fosse successo.
I pomeriggi seguenti finiscono con una partita di calcio e con un tramonto oltre le montagne verso Ovest.
Le liste per le interviste e gli abbandoni
Un giorno sulla bacheca all’entrata del campo di Nea Kavala appaiono dei fogli: sono le liste per i secondi appuntamenti per i rifugiati in vista di un ricollocamento in un altro Paese europeo. Dei 66.400 ricollocamenti previsti soltanto 4.399 sono stati portati a termine nell’arco di un anno. Gran parte delle persone è al campo già da 6 o 7 mesi. Anass, uno degli aiutanti – ragazzi che ci aiutano con le attività di distribuzione nei campi – è al colmo della frustrazione: ancora non vede comparire il suo nome nella lista.
Oltre alla rabbia, c’è chi tenta di andare via e ripercorrere parte della strada che aveva fatto per scappare dalla guerra. Essa, mio coetaneo di Aleppo laureato in ingegneria civile, decide di tornare verso Atene da alcuni amici per poi proseguire il ritorno verso i suoi genitori rimasti in Siria. Al suo arrivo a Leros mi racconta che la situazione nei campi era insostenibile e il comportamento della polizia inaccettabile, quindi ha deciso di tornare dal fratello a Nea Kavala.
La partenza
Prima della mia partenza, nonostante le numerose diffidenze, ho raccolto qualche donazione privata in denaro da poter investire direttamente in Grecia per acquistare beni di prima necessità. La Croce Rossa Siriana mi suggerisce di acquistare acqua e cibo contenente zuccheri per donne con problemi di disidratazione e bambini che soffrono di epatite. Assieme a Uday, scappato da solo dalla Siria e diretto in Norvegia, distribuisco i pacchi dando gli ultimi saluti “Salaam ailaykum”, il saluto più popolare fra i Paesi arabi: “che la pace sia con voi”.
L’ultima sera la riservo per camminare fra le tende e parlare con le persone più adulte. Mi soffermo a guardare una madre mentre sta dando da mangiare a cinque bambini. Forse distratti dal mio arrivo iniziano non dar retta più al cibo, la madre spazientita torna alla sua tenda. Una bambina di due anni, probabilmente la più piccola, prende l’iniziativa e inizia a dare da mangiare ai suoi amici. Rimango impressionato dalla facilità con cui condivide la cosa più cara che ha in quel momento: il cibo. Poco dopo mi prende per mano e mi porta nella tenda dove c’è il resto della sua famiglia, tra cui un fratellino di neanche un anno.
Il giorno seguente avanza un pacco con miele e marmellata perché una famiglia aveva abbandonato preventivamente il campo. Il mio ricordo va subito alla piccola bambina sveglia che ho conosciuto il giorno prima: torno alla sua tenda per consegnare il miele e la marmellata a lei e ai suoi tre fratelli.
Se mai dovessi tornare a Nea Kavala vorrei non rivedere le stesse persone. La mia speranza è che in qualche modo saranno riuscite a raggiungere l’Europa, che i bambini avranno iniziato ad andare a scuola e che i loro genitori avranno trovato un lavoro in attesa che la guerra in Siria e negli altri Paesi sia finita.