Di fronte alla Stazione San Giovanni di Como c’è un parco dove vivono da mesi centinaia di rifugiati. La maggior parte di loro viene dall’Etiopia e dall’Eritrea e sono quasi tutti giovani uomini.
Il 19 settembre è stato aperto un campo profughi, poco distante dalla Stazione, gestito dalla Croce Rossa, insieme alla Caritas. Contiene molti container in grado di ospitare fino a 300 persone, oltre a una mensa, servizi igienici e un’infermeria.
I migranti, però, non vogliono lasciare il “presidio” della Stazione. I volontari indipendenti che incontriamo nel parco ci spiegano che i profughi hanno paura di entrarvi. “Pensano che una volta entrati non potranno più uscire e saranno costretti a rimanere in Italia”. Quasi tutti loro, infatti, vogliono recarsi in Svizzera o in Germania, appena i confini saranno riaperti.
I migranti ci raccontano di aver provato più volte a superare i confini, ma sono stati fermati dalle Forze dell’Ordine che non hanno permesso loro di proseguire il viaggio.
I volontari ci dicono che un altro motivo per cui i migranti non vogliono entrare nel centro è legato al fatto che la durata massima di un uscita è di 72 ore. Chiaramente se un profugo cerca di superare il confine, ma non riesce a tornare indietro nell’arco di tempo prestabilito, perde il diritto all’accoglienza da parte della Croce Rossa.
Il parco è diventato ormai una sorta di “presidio”. La prima cosa che si nota, scendendo le scale di fronte all’ingresso della Stazione, è la distesa di tende da campeggio, le nuove case, ormai da mesi, dei profughi in transito.
Ci sono panni stesi. Passeggini e giochi. I migranti sono fuori dalle tende e c’è chi si intrattiene parlando, chi riposa all’ombra e chi cerca informazioni per proseguire il viaggio.
Incontriamo un gruppo di ragazzi della Guinea che ci spiegano di aver provato più volte a raggiungere la Svizzera, ma arrivati al confine sono stati respinti e rimandati indietro. Ci dicono che sono stanchi, in viaggio da quasi un anno. Ci dicono che in Italia hanno subìto episodi di razzismo, “perché se sei bianco non ti fermano, se sei nero, non hai speranze”.
Proseguono raccontando di non essere scappati dal loro Paese per mancanza di lavoro, ma per la corruzione e per la repressione nei confronti della loro etnia. Avevano studiato, ci dicono. Uno di loro era studente di lingue “ma non c’erano professori di spagnolo o portoghese, studiavamo i dialetti africani”.
Salutiamo i ragazzi e proseguiamo, camminando fra le tende. Un ragazzo etiope sta facendo la barba a un suo connazionale. C’è solidarietà fra loro. Cercano di mantenere la dignità anche in una situazione così precaria e difficile.
Poi incontriamo due ragazze nel parco. Ci invitano a sederci con loro all’ombra di un albero. Vengono dall’Etiopia e fanno parte dell’etnia Oromo, come quasi tutti i loro connazionali al “presidio”. Hanno 20 e 21 anni. Sono arrivate a Como insieme al fratello di Naima, la più piccola. Ci dicono che non vogliono andare al campo della Croce Rossa, “perché il campo non è la soluzione.” Naima ci spiega che sono a Como da due mesi. Ha parenti in Germania, ma non si ricorda in che città vivono. Ha la mente troppo stanca, ci dice la sua amica.
Le due ragazze dormono in una tenda nella “zona Oromo” del parco. Capiamo così che la zona attorno alla Stazione è suddivisa in base alle etnie. Sui gradoni ci sono gli eritrei, nel parco gli etiopi, suddivisi fra Oromo e altri gruppi.
I volontari al parco sono pochi e non possono distribuire cibo, perché da quando è stata aperta la mensa all’interno del campo della Croce Rossa gli è stato impedito di farlo. Hanno provato a dar da mangiare molte volte, ma ora possono farlo solo di nascosto, temendo possibili contrasti con le Forze dell’Ordine.
I migranti ci spiegano di non aver mangiato. Gli consigliamo di recarsi alla mensa della Croce Rossa, ma rifiutano. Così scopriamo che molti non vogliono recarsi al campo perché gli Oromo hanno fatto una riunione il giorno prima e la maggioranza ha votato per rimanere nel parco.
Domandiamo ai volontari quali saranno gli sviluppi futuri: ci spiegano che c’è stata una riunione in cui è stato deciso di lasciare ancora per quattro o cinque giorni il presidio nel parco, per poi smantellarlo e convogliare i profughi nel campo della Croce Rossa e Caritas.
Una volontaria dice che ormai stanno sgomberando il parco da soli, perché il futuro dei migranti è già stato deciso.
La zona intorno alla Stazione è presidiata da una camionetta dei Carabinieri e una della Polizia. Ci avviciniamo per chiedere informazioni sul nuovo campo della Croce Rossa. Ci spiegano che è vicino, ma che sono necessari dei permessi per entrarvi.
Decidiamo di provare ad andare ugualmente. Dopo una ventina di minuti raggiungiamo il campo. Dalla strada si vedono dei container che hanno diverse funzioni, da quella abitativa a servizi igienici. Il cancello è aperto ed entriamo. Incontriamo alcuni operatori della Croce Rossa che ci spiegano di non poterci dare nessuna informazione perché non abbiamo l’autorizzazione della Prefettura e ci indicano la strada per raggiungerla per poter poi tornare a visitare il campo.
Tornando verso la Stazione incontriamo Mustafa, un ragazzo di 17 anni che viene dalla Somalia. Ci racconta di essere arrivato a Como qualche giorno prima. È partito dalla Somalia per poi arrivare in Sudan. Ha attraversato il Sahara su alcune jeep in mano ai trafficanti di terra.
Arrivato in Libia si è imbarcato per l’Italia, per raggiungere l’Europa. Il viaggio gli è costato 10mila dollari. Il suo sogno è quello di arrivare in Svezia, dove ha alcuni parenti. Gli chiedo quale sia il suo sogno per il futuro, mi risponde così “voglio essere felice”.Salutiamo i ragazzi somali e torniamo al parco dove oltre 150 migranti fra giovani uomini e donne aspettano che riaprano i confini. Conosciamo un gruppo di ragazzi etiopi. Chiediamo da dove vengono e rispondono “Oromia”, prima di dire Etiopia: sono molto legati alla propria etnia, e ci tengono a dimostrarlo.
Uno di loro, Mohammed, ha 25 anni. Ci dice che gli italiani sono “mia, mia”, un modo di dire arabo che indica un apprezzamento, letteralmente “cento per cento”.
Mohammed è a Como da due mesi. Ha provato a superare il confine, ma è stato respinto. Dice che non è andato via dall’Etiopia perché non aveva lavoro, “avevo un negozio molto grande” prosegue “tutti noi avevamo un lavoro”. Anche lui ci spiega che il motivo per cui sono scappati è legato alla repressione messa in atto dal governo etiope nei confronti della loro tribù. Guarda dietro di noi e ci indica una bandiera, appesa insieme ad alcuni striscioni di protesta. “Quella è la bandiera degli Oromo” ci dice orgoglioso.
Un ragazzo di fianco a lui mima il gesto delle manette, una X con le braccia. Lo stesso che ha fatto l’atleta olimpico etiope Feyisa Lilesa , un gesto pericoloso che lo ha portato a non poter più tornare in patria e a chiedere asilo politico.Attorno a noi si è formato un gruppo di ragazzi, tutti etiopi. Parliamo in arabo, perché non tutti parlano inglese, e dopo la loro lingua madre, l’arabo è quella che parlano meglio. Gli spieghiamo che per qualsiasi informazione, su internet, possono trovare la guida Welcome to Italy che spiega quali sono i loro diritti. Per ringraziarci intonano un canto oromo. Tutti sorridono, hanno trovato un momento di serenità.
È arrivato il momento di tornare indietro. Prendiamo il treno per Milano.
Sul nostro vagone sono saliti insieme a noi tre ragazzi somali, due di 15 e uno di 17 anni. Erano a Como da venti giorni, ma sono decisi a raggiungere la Germania. Sono diretti a Milano, poi prenderanno un treno per Verona, sperando in seguito di passare il confine al Brennero.
“Voglio andare a Francoforte,” dice il più grande “e lui a Monaco. Lui, invece, non lo sa, gli basta arrivare in Germania.” Prosegue dicendo che non hanno famiglia là, ma solo amici “che sono un po’ come la famiglia.”
Il più grande ha studiato giornalismo in Somalia, a Mogadiscio, e spera di poter proseguire gli studi in Europa. Gli altri due, invece, hanno frequentato la scuola fino all’equivalente della nostra terza media. Uno dei due vorrebbe studiare per diventare medico, l’altro, invece, vorrebbe entrare a far parte della Polizia.
I tre ci raccontano del loro viaggio, per arrivare fino a qui. Hanno lasciato la Somalia circa un anno prima. Hanno preso un barcone per lo Yemen, per non attraversare l’Etiopia né l’Eritrea, “perché è troppo pericoloso.” Dopo cinque giorni e cinque notti in mare, sono finalmente giunti nel Paese della Penisola Arabica. Poi si sono imbarcati di nuovo, questa volta verso il Sudan. In Sudan hanno pagato uno scafista di terra che li ha caricati su un fuoristrada per attraversare il Sahara. “Ci abbiamo messo venti giorni, immaginate?” ci dicono.
Una volta arrivati in Libia hanno dovuto aspettare chi nove e chi sette mesi per imbarcarsi. “Non potevamo fare niente, in Libia sono razzisti,” raccontano “venivamo picchiati senza motivo, perché siamo neri”.
Mohammed spiega che passava molto tempo guardando il mare, in attesa di partire. Anche lui ha pagato 10mila dollari per arrivare in Italia. Il suo amico diciassettenne è stato più fortunato, e ne ha pagati solo 7mila.
Erano tutti e tre sullo stesso barcone. Sono stati salvati da una nave italiana dopo tre giorni di navigazione, e sono sbarcati in Sicilia. Poi sono passati da Roma per arrivare a Milano, e successivamente a Como.
Gli altoparlanti del treno avvisano che stiamo entrando in Stazione Centrale, a Milano. Salutiamo i ragazzi e scendiamo dal treno. Ognuno per la propria strada, li perdiamo di vista nella folla.
Una folla così assorta nei propri pensieri da non notare i tre ragazzini somali in cerca di un futuro migliore.