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Si chiama Octobot ed è stato realizzato da un team di ingegneri dell’università di Harvard. È un mini-polpo automa di appena sette centimetri (e alto meno di due), creato con una forma stampata in 3D e riempita di silicone liquido: di qui la caratteristica che lo rende fondamentale per il futuro dell’automazione — la morbidezza. Una caratteristica cruciale per l’interazione con gli esseri umani, che, com’è noto, non sono dotati di esoscheletro.

Il suo funzionamento è garantito da una reazione chimica che sfrutta la propulsione di un gas. Per questo il nuovo octobot non ha bisogno di batterie e non contiene componenti rigide.

Bene. Ma quindi cosa può fare? Per il momento niente: i movimenti programmati dei suoi tentacoli — tramite una sorta di micro-circuito fluido — sono abbastanza soltanto per farlo agitare un pochino qua e là. Il “carburante” è una soluzione al 50% di perossido di idrogeno, che, a contatto con il platino contenuto in un segmento del circuito interno, si decompone in acqua e ossigeno, liberando il gas pressurizzato che muove i tentacoli. Un millilitro basta a far muovere octobot per otto minuti. Ma è un primo passo verso la realizzazione di robot completamente morbidi capaci di svolgere movimenti e operazioni complessi, come puntualizzano i progettisti di octobot, che hanno pubblicato oggi il risultato del proprio lavoro su Nature.

“La sfida,” spiega uno di loro, Robert Wood, “è sempre stata quella di rimpiazzare componenti rigidi come batterie e controlli elettronici con analoghi sistemi morbidi, e mettere tutto insieme. Questa ricerca dimostra che possiamo facilmente creare i componenti chiave di un robot semplice e interamente morbido, che pone le basi per design più complessi.”

Non è la prima volta in realtà che il cefalopode più bello del mondo viene scelto come modello per la realizzazione di automi soffici: di recente, anche una ricercatrice italiana della Scuola Superiore Sant’Anna, Cecilia Laschi, ha creato un modello di octobot acquatico — il cui punto debole, però — in vista di una autonoma e adorabile viscidezza — erano le fonti di alimentazione esterne.

Il prototipo italiano era stato alla base di un progetto europeo per trovare al robot-polpo un’applicazione chirurgica, grazie alla capacità di modificare la propria forma e condurre in questo modo operazioni delicate dall’interno del corpo umano.